"What if, Brandon Roy": le strade del destino sono malinconicamente imperscrutabili
(di FRANCESCO RIVANO). Vi siete mai posti questa domanda: “Cosa sarebbe successo se fosse andata diversamente?” Vi è mai capitato di dover rinunciare a qualcosa perché un fattore esterno vi ha impedito di raggiungere un luogo, di svolgere un compito o di incontrare qualcuno? Negli Stati Uniti sintetizzano il tutto con due paroline, “What If”, per descrivere quelle situazioni potenzialmente interessanti che non riescono a svilupparsi per l’accadimento di un qualsiasi evento che devia dal percorso previsto. E di “what if” ne avrete sentito parlare sicuramente nel mondo del basket a stelle strisce: cosa sarebbe successo se Earl “the Goat” Manigault non si fosse innamorato troppo presto dell’eroina? Cosa sarebbe successo se Ronnie Field non si fosse messo alla guida per rientrare di notte verso casa? Cosa sarebbe successo se Len Bias avesse festeggiato la chiamata dei Celtics al Draft NBA con un’acqua tonica invece che con la Dama Bianca? Potremmo star qui a elencare una marea di situazioni analoghe che avrebbero portato a scrivere pagine di storia del Basket diverse da quelle che siamo abituati a leggere e a raccontare. Nei casi su elencati a dirottare la via del potenziale campione, senza voler star qui a discutere i motivi che l’hanno provocata, è stata una scelta scellerata, una decisIone sbagliata. In alcuni casi però a decidere per una persona è un evento casuale che non può essere imputato a una negligenza del protagonista. È chiaro che in entrambi i casi il dispiacere per aver perso quella che poteva essere l’occasione della vita è forte e doloroso, ma mentre nei primi casi (escluso Bias che non ha avuto opportunità di rifarsi) può essere tollerato dal fatto di essersi auto sabotati, nel secondo caso può diventare insopportabile perché subito senza apparenti colpe.
Da qui l’analisi della capacità di reagire e sopportare il conto, giusto o sbagliato che sia, che la vita ti presenta cammin facendo. Avete mai sentito parlare del concetto di “tabula rasa”? Una teoria sostenuta John Locke che si basava sul principio che la mente di un neonato fosse paragonabile a un foglio bianco e che tutte le sue conoscenze e il carattere si formassero attraverso le esperienze e gli insegnamenti di vita quotidiana. Posto che la neuroscienza ha messo in chiaro quanto alcuni meccanismi e strutture mentali siano innate nella mente di un individuo, il concetto di tabula rasa non dev’essere totalmente accantonato, ma integrato in quanto ad affiancare le peculiarità intrinseche di un individuo ci sono le esperienze vissute che sono in grado di far acquisire conoscenze e a plasmare i caratteri.
Nella famiglia in cui è nato il piccolo Brandon vigeva una sorta di regolamento interno fondato sulla condivisione. E come si poteva prescindere dall’altruismo in una famiglia composta da due genitori operai (autista di autobus il padre e inserviente in una mensa scolastica la madre) e sei figli. Tutto era di tutti, tutto era per tutti, senza manovre atte a premiare l’individualità del singolo, senza egoismi personali, solo amore e generosità. A sostenere questo principio di convivialità liberale c’era una virtù insegnata ai figli dai genitori: l’umiltà, ossia la capacità di non farsi accattivare dalla sopraffazione. Nessuno sfogo di orgoglio, nessun “è mio perché sono migliore degli altri”.
Crescere in questo ambiente è stato di fondamentale importanza per Brandon che ha sempre sostenuto la tesi per cui ogni sua dote sia stata un elemento da coltivare e non un motivo da mettere in mostra e di cui vantarsi. Ed è così che Brandon è riuscito ad emergere nonostante sportivamente parlando fosse oscurato alla high School dalle prestazioni del fratello Ed e al College dalla notorietà di alcuni compagni di squadra. Brandon è rimasto dietro le quinte a lavorare, a godere delle fortune del fratello prima e dei compagni di squadra poi, per poter assorbire da loro ogni insegnamento che lo avrebbe fatto crescere nel basket come nella vita. Eppure l’amore per il basket viene scalfito dal primo evento non voluto che investe la vita di Brandon. È proprio alla Garfield High School che il mondo scopre il Brandon cestista: contro la Mounlake Terrace entra dalla panchina e con un balzo prepotente schiaccia in faccia a Seamus Boxley, miglior stoppatore dello stato e destinato a un college della Division I. “Ma allora il ragazzo ci sa fare” e da lì in poi Brandon esplode. Nonostante la prestanza fisica e la capacità di comprendere il gioco, per poter compiere il primo grande passo verso una carriera da professionista è necessario passare per il College Basket. Brandon non voleva scappar via dalla sua Seattle in cerca di un ateneo di prim’ordine; Brandon era convinto che si potesse rendere grande l’ateneo di casa solo decidendo di restare vicino a casa. È il suo altruismo ad emergere anche in questa scelta, è la sua umiltà a fargli mettere da parte l’orgoglio personale per mettere a disposizione il suo più grande talento, quello cestistico, a servizio della comunità che lo ha accolto e fatto crescere. Ma per poter ottenere una borsa di studio c’è da passare lo sbarramento del SAT (Scholastic Assestment Test) e il disturbo dell’apprendimento di cui è vittima fin da piccolo non gli permette di raggiungere il punteggio minimo indispensabile. È questo il primo vero fallimento della vita di Brandon, è questo il primo test per capire come saprà affrontare le difficoltà e l’esame lo supera a pieni voti. Brandon si rimbocca le maniche e sostituisce temporaneamente l’ambizione di avere un contratto multimilionario grazie al basket con un salario da operaio come pulitore di container al porto di Seattle. Ma d’altronde suo padre e sua madre, prima di lui, hanno vissuto da operai e nonostante ciò erano stati in grado di tirare su una famiglia eccezionale. È stato proprio l’esempio dei genitori a far si che la famosa “tabula” è passata da essere “rasa” a riempirsi di insegnamenti utili per la vita. La mattina con la pompa in mano e la sera a studiare, affiancato dai tutor, per riprovare a passare lo sbarramento del SAT finché il 16 Gennaio del 2003, seduto nella saletta della University of Washington, gli viene comunicato che il suo è il miglior punteggio. Dal primo giorno con la maglia degli Huskies cattura l’attenzione di coach Romar imparando in meno di 45 minuti l’intero playbook della squadra. Nonostante ciò i primi tre anni li passa all’ombra di Nate Robinson e dei guai fisici, ma demordere non gli è mai piaciuto e si auto convince che, a furia di far le cose per bene il fisico verrà in suo soccorso e l’allenatore lo metterà in campo. Il quarto anno è praticamente perfetto: First Team All American, giocatore dell’anno della Pac-10, tra i primi 10 in 10 categorie statistiche su 13 e seconda apparizione consecutiva alle sweet sixteen per la University of Washington.
Finita la carriera universitaria il passo successivo sarebbe dovuto essere quello dell’approdo nella Lega migliore del mondo, la NBA, ma non tutto è stato così scontato. Brandon nei vari work-out rubava l’occhio alle franchigie più per i suoi valori umani che per i seppur evidenti pregi cestistici, tanto che lo stesso Brandon dubitò di entrare nel novero delle scelte del draft del 2006. Eppure alla sesta chiamata i Timberwolves giocarono la loro fiche sul nativo di Seattle salvo poi scambiarlo per Randy Foye con i Portland Trail Blazers. Alla partita di esordio affronta i Super Sonics provenienti dalla sua Seattle e da lì in poi il mondo del basket statunitense lo guarderà con occhi diversi, gli occhi dell’ammirazione. Un ritmo tutto particolare con cui guida da veterano, nonostante fosse un rookie, una franchigia NBA; una prepotenza fisica a servizio di due mani educate e una visione periferica che lo colloca tra i migliori play emergenti della Lega. Al primo anno vince con 127 voti su 128 votanti il titolo di Rookie of The Year, al secondo anno è il miglior giocatore in punti, assist e palle rubate dei Blazers e porta la squadra a lottare per i playoff; viene convocato al suo primo All Star Game e la sua maglia è la più venduta nei Trail Blazers Campus Store. Ricordate sempre gli insegnamenti ricevuti in famiglia: condivisione e umiltà. Brandon non si monta la testa: nessun tatuaggio, nessuna catene d’oro, presta servizio di volontariato come guardia stradale presso le scuole elementari dell’Oregon ponendo le basi per quella che diventerà la sua Fondazione a favore dei bambini disabili. Grande giocatore, bravo ragazzo, sani principi e attitudine mentale perfetta per affrontare le difficoltà della vita e dello sport. Ma veramente può filare tutto liscio in una vita così? Ecco il secondo evento casuale che lo mette sotto esame. Dopo le difficoltà apprendimento che hanno rallentato la sua scalata da ragazzo è ancora una volta il suo stesso fisico a ribellarsi a tanta perfezione. Gli infortuni si susseguono e nonostante Brandon continui a meravigliare il mondo del basket con prestazioni da record con la casacca della franchigia dell’Oregon, pian piano le ginocchia cedono, la cartilagine si consuma finché il medico non da la sentenza: “le tue ginocchia sono osso su osso e non c’è nessun intervento che ti possa permettere di giocare a basket senza sentire dolore”
La stagione 2010-2011 è l’ultima con la maglia rosso nera e a pochi giorni dall’apertura del training camp della stagione 2011-2012 Brandon sciocca il mondo annunciando il suo ritiro dal basket giocato. A soli 27 anni, con un massimo in carriera in NBA di 52 punti, nominato All-NBA per due volte e con una squadra costruita su di lui e LaMarcus Aldridge per poter competere ai vertici della Western Conference, Brandon è costretto ad arrendersi all’ineluttabilità dei fatti. Ci riprova con i Timberwolves nella stagione 2012-2013, ma le ginocchia non ne vogliono sapere. Prova a percorrere la strada da allenatore prima alla Nathan Hale High School per poi tornare a casa alla Garfield High School. L’ultima volta che se ne è sentito parlare è ancora una volta per un atto di altruismo, per non dimenticare gli insegnamenti della famiglia Roy. A Compton per festeggiare con la famiglia il compleanno della nonna è rimasto coinvolto in una sparatoria per cercare di schermare dei colpi destinati a dei ragazzi. Per fortuna le conseguenze non sono state fatali. What if? Come sarebbe andata se il fisico avesse supportato lo sviluppo della carriera di Brandon? Quali sarebbero state le statistiche e i risultati dei campionati NBA se i Blazers avssero potuto contare sulle performance di “uno dei giocatori più difficile da marcare” (parola di Kobe)? Come sarebbero cambiate le gerarchie nella Lega se Brandon si fosse aggregato a un superteam? Non lo sapremo mai, le uniche cose che sappiamo è quanto sia stato forte Brandon Roy con la palla a spicchi in mano e quanto sia stato mentalmente forte ad accettare il verdetto della vita che lo ha costretto a passare dal campo alla panchina all’apice della sua carriera.
—– Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell’Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell’amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall’amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: “Ricordi al canestro” legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo “La via di fuga” Link per l’acquisto del libro.