Me and Doc. J – di Giorgio Gandolfi

Me and Doc. J – di Giorgio Gandolfi

(di GIORGIO GANDOLFI).
Questa è la cronistoria del mio primo incontro con Julius “Doc. J” Erving e dell’amicizia che è poi nata
. Parto per gli Stati Uniti, come un novello Cristoforo Colombo, il 19 dicembre dell’era paleolitica (era l’anno 1976 d.c.) ed il                                        
25 Dicembre vado al Madison Square Garden per la mia terza partita NBA, New Yorks Knicks-Philadelphia 76ers.
Quale miglior regalo potevo farmi la vigilia di Natale, se non veder giocare Julius “Doc. J” Erving? Avevo scritto su di lui due articoli sui “Giganti del Basket” ed ora potevo ammirarlo dal vivo e, sogno di Natale, forse fargli un’intervista. Dai New York Nets della lega ABA, che si era sciolta, e dopo che aveva vinto due titoli, Erving era passato a Philadelphia per il suo primo campionato NBA e proprio quella sera avrebbe fatto il suo debutto a New York al Madison Square Garden.

Inizia la partita e in breve tempo Erving fa due falli.  Al suo terzo fallo, mi scappa  a voce alta in italiano un: “Ma nooo, dai!”, condito da un gesto di disappunto con le braccia alzate di scatto quando Erving viene chiamato in panchina agli inizi del secondo quarto. Un giornalista accanto a me, mi guarda strano e poi mi chiede da dove venivo e si mette a ridere quando gli dico che ero venuto per veder giocare Erving e lui era in panchina. I Sixers vincono 105 a 104 con Erving, che segna 16 punti. Al termine della partita una marea di giornalisti, radio e televisioni entra nello spogliatoio dei Sixers ed io mi accodo. Passa un’ora e più, tutti gli altri compagni di squadra di Erving, che avevano fatto la doccia ed erano usciti, lo sciame di giornalisti era scomparso e rimaniamo in spogliatoio un amico di Erving ed io. Mi avvicino timidamente, gli faccio vedere gli articoli di Giganti e gli chiedo se posso intervistarlo. Senza alcun problema annuisce con un sorriso, mi faccio scattare una foto mentre lo intervisto e lui mi dedica una ventina di minuti, fino a quando un inserviente del Madison entra nello spogliatoio che pensava vuoto. Gli chiedo come posso eventualmente contattarlo, e, con mia grande sorpresa, mi da i suoi numeri di telefono: esco dal Madison e cammino come uno zombie, ancora sorpreso, estasiato ed incredulo.

La storia continua
Quando si dice i casi della vita. Chuck Daly, con il quale mi ero già incontrato più volte ed ero stato suo ospite a Philadelphia, diventa assistente allenatore dei Philadelphia 76ers a fianco del capo allenatore Billy Cunningham, che da giocatore, aveva vinto un titolo NBA nel 1967 accanto a Wilt Chamberlain. Il mio legame con i Sixers e, quindi, con Erving, dopo averlo intervistato a New York nel 1976, diventa ancor più forte. Mani  enormemente e totalmente sproporzionate anche per un giocatore di due metri, come si vede in questa foto scattata nel suo ufficio, si muoveva con una leggerezza ed una fluidità incredibili, oltre, naturalmente, ad essere dotato di una elevazione unica. Erving aveva rivoluzionato l’arte della schiacciata con i suoi voli iniziati da fuori area, la sua enorme mano che stringeva il pallone come se fosse poco più di una pallina da tennis e la sua eleganza, più che potenza, nel chiudere l’azione con una schiacciata o nel rilasciare la palla con un “finger roll”, cioè facendo scivolare la palla sul palmo della mano, al termine del salto.

Fantastica allo Spectrum, il campo dei Sixers,  era la presentazione di Erving, del mitico annunciatore Dave Zinkoff, uno dei più famosi di tutti gli Stati Uniti: “And now…with the number 6…”Ju-LIIII-us ERRRR-ving”  con la “R” pronunciata più volte ed in un crescendo di volume del tono di voce.
Dopo la prima partita a New York, lo vedo giocare decine di volte allo Spectrum od in altri campi, oltre alle finali del 1980, del 1982 e 1983, come anche nella gara 7 di finale della Eastern Conference del 1981, quella contro i Boston Celtics persa per un punto a Boston con un tiro in sospensione appoggiato al tabellone di Larry Bird, nonostante i 22 punti segnati da Erving. Come anche ci vediamo a molti All Star Game.

Ma le mie frequentazioni con il “Doctor” – il soprannome gli era stato dato da un suo compagno alla high school, che lui chiamava “professore” – non si limitavano ai campi di gioco e di allenamento.
Mi invita a casa sua una prima volta a Villanova, un sobborgo di Philadelphia. Viveva con la moglie Turquoise ed i quattro figli, di cui uno adottato, in questa enorme casa, termine molto riduttivo, a tre piani, con l’ultimo piano adibito a sala giochi con flipper, bigliardo ed altro ancora. Naturalmente non mancava la piscina, il campo da tennis ed il campo da basket.

Un anno a giugno mi invita ad un’altra delle sue case a Long Island, sobborgo di New York dove era cresciuto. Vado in treno, Erving mi viene a prendere alla stazione con un’auto coupé bassa, entro in auto, ed i pantaloni di lino, mentre mi siedo si scuciono dietro. Per alcune ore giro per casa con i bermuda che mi aveva prestato Erving e che per me erano come dei pantaloni lunghi fino alle caviglie, in attesa che mi ridessero i miei pantaloni ricuciti. Mi ricordo alcuni particolari della casa, come la vasca da bagno enorme o la stanza degli ospiti con un letto circolare alto oltre un metro, sul quale io, comune mortale, mi dovevo arrampicare. Ma il più bel ricordo è quando un anno a Philadelphia, in occasione del mio compleanno, mi regala una sua scarpa al termine della partita.

A settembre del 1981 vengo chiamato da Leo Watcher, un organizzatore milanese di eventi, che mi dice che avrebbe portato in Italia una selezione di giocatori NBA a giocare a Milano contro il Billy e, tra questi giocatori, Julius Erving, oltre a Moses Malone e Michael Ray Richardson e mi chiede se potevo seguirli durante la loro permanenza a Milano.

Con grande “sacrificio” accetto. Entriamo al Palazzo di S. Siro, quello che poi crollerà per il peso dalla neve, e Julius rimane allibito vedendo oltre 12.000 spettatori impazziti per lui, con decine di striscioni a lui dedicati. Durante il prepartita, Julius inizia a “scaldare” il pubblico con qualche schiacciata ed è carico a mille. Immaginate cosa provavo ad essere in panchina con la selezione NBA, come un bambino in un negozio di giocattoli. Nell’intervallo lo accompagno da un giornalista televisivo che inizia a fargli domande, ma, dopo un paio di minuti, Julius lo interrompe e gli dice gentilmente che deve tornare in campo per fare riscaldamento prima del secondo tempo, tanto aveva preso sul serio la partita. Poco prima della fine della partita viene richiamato in panchina, la folla gli tributa un’ovazione ed invade il campo. 

Saliamo in pullman per tornare in hotel e la hostess si avvicina a Julius per chiedergli un autografo. La moglie di Erving, Turquoise, che era molto gelosa, mi chiama e mi dice perentoria: “Giorgio, falla scendere, non deve avvicinarsi a Julius!”. C’era un piccolo particolare, che eravamo in tangenziale, ben oltre la mezzanotte. Riesco a calmarla e giungiamo senza problemi in hotel.
Le nostre strade si incroceranno ancora quando, terminata la mia esperienza ai “Giganti del Basket”, inizio a lavorare come Responsabile Europeo Eventi e Marketing della Converse e Julius era uno dei nostri testimonial. Andiamo insieme ad Atene, Copenaghen, Malmoe, Parigi, Londra e Madrid, sia a clinic, che camp,  come anche in occasione di vari McDonald’s Open, che la Converse sponsorizzava.

L’ultima volta che ci siamo visti è stata nel 2012 all’ All Star Game di Orlando, quando, invitato al pranzo dell’NBA Legends, lo saluto e lui mi firma l’ennesima  dedica sulla brochure di presentazione dell’evento. In ufficio ho almeno sei suoi autografi su calendari, foto, brochure, per non parlare delle sue decine di diapositive di gioco, che ho scattato in oltre una trentina di partite dei Sixers, sia allo Spectrum di Philadelphia, che in altri palazzetti. L’ultima sua gentilezza è stata l’aver scritto nel 2022 la prefazione per il mio libro, spinto da tanti amici in USA ed in Europa  e che avevo autoprodotto, “C’era una volta la pallacanestro… e non solo”, sui miei trascorsi nel basket in tutto il mondo, ed i cui proventi li ho devoluti totalmente al Baskin, il basket integrato. 
Lasciatemi orgogliosamente dire, senza peccare di presunzione, che dal 1974 in poi i miei articoli, ed in seguito, le mie interviste di persona, e le mie foto quando lavoravo per i “Giganti del Basket”, hanno contribuito a farlo conoscere in Italia, prima che si vedesse in televisione, e questo è un altro dei fiori all’occhiello nella mia vita passata nel basket.
(Questo articolo è stato in origine pubblicato su stepback.basketball)