Cosa identifica veramente la sigla A.I.? The Answer is...

(di Francesco Rivano). Partiamo da una domanda: cosa identifica la sigla A.I.? Io una risposta (tenete a mente questo termine) ce l’avrei anche, ma prima di rendervela nota mi affiderei a una spiegazione utilizzata oggidì più comunemente: Artificial Intelligence. L’Intelligenza artificiale è ormai diventata la confidente preferita dell’essere umano e allora la uso anche io, solo per un attimo, per provare a spiegare di cosa si tratta. L’A.I. dice di se stessa di essere la “capacità delle macchine di mostrare comportamenti e funzioni umane come il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la risoluzione dei problemi basandosi sull’analisi di dati per agire verso un obiettivo.” Un intreccio di algoritmi e reti neurali artificiali che stanno diventando pian piano i migliori amici dell’uomo. Hai un problema? Chiedi all’ A.I. come risolverlo! E dell’A.I. ci si fida a occhi chiusi perché in quanto intelligente artificialmente si presuppone non possa mai sbagliare. Ma una domanda me la pongo io dopo questa premessa. La risposta che ci fornisce l’A.I. è tale da valutare le motivazioni, le sensazioni, l’umore, lo stato d’animo della persona che si pone la domanda stessa?
Perché una cosa è chiedere l’anno di nascita del nostro cantante preferito, un’altra è porsi dei quesiti molto più sofisticati la cui risposta è affidata a una “macchina che mostra comportamenti umani” ma che di umano ha realmente poco e non è in grado di ascoltare fino in fondo la richiesta. Direte voi: basta non affidarsi solo a essa, ma vallo a spiegare a i ragazzi che vedono nell’A.I. la via più breve per rispondere a un quesito, togliendo loro la curiosità e l’interesse di studiare, apprendere, conoscere in maniera più approfondita qualsivoglia argomento. Un tempo si leggevano i libri di Wilburn Smith con l’atlante a portata di mano per tracciare le rotte dei viaggi dei protagonisti, oggi ci si avvale di “Alexa, dove si trova Zanzibar?” dimenticandoci dell’informazione due secondi dopo averla ricevuta. Sempre che ci sia ancora qualcuno che legge per passione. Nulla contro l’intelligenza artificiale, sia chiaro. Tutto però contro chi dell’intelligenza artificiale abusa pur di trovare una scappatoia veloce alla risoluzione di ogni problema.
Hampton, Virginia, metà anni ’70. Come viveva un ragazzo costretto in una cittadina statunitense che aveva come maggiore attrazione Fort Monroe, ovvero uno dei siti militari più antichi degli Stati Uniti? Senza l’Intelligenza artificiale e senza internet la vita era totalmente differente da quella attuale. Prima di tutto per potersi interfacciare con le persone bisognava uscire, radunarsi nei punti di ritrovo, passare al vaglio della selezione naturale e trovare il gruppo di persone che più si addicevano alla propria personalità. Non c’era un algoritmo che individuava le caratteristiche delle persone da frequentare in base a una serie di informazioni rese note dai social, così come non c’erano i social stessi nei quali fare amicizia virtuale e stare dietro una tastiera o davanti a un telefono per poter interagire e mascherare le proprie debolezze. Le esperienze si vivevano sul campo, in prima persona, le discussioni si affrontavano guardandosi negli occhi e non insultandosi a distanza, le esperienze gioiose così come quelle dolorose, si pagavano sulla propria pelle, spesso a caro prezzo. Pensate che Ann, quindicenne di colore, residente nei bassifondi di Hampton, se avesse avuto a disposizione l’intelligenza artificiale, non avrebbe avuto l’opportunità di comprendere quanto un impulso fisiologico travolgente a quell’età avesse potuto generare dei guai? Ma l’intelligenza artificiale non c’era, c’erano solo lei e il suo amato compagno diciassettenne in preda a una tempesta ormonale che li ha spinti nel giardino di casa della nonna di Ann a compiere l’atto più antico del mondo. Eppure quell’atto manco si è compiuto fino in fondo visto che la padrona di casa, insospettita dagli “strani rumori” abbia interrotto la liaison nel momento migliore. Oggi Ann avrebbe chiesto all’intelligenza artificiale le probabilità di diventare mamma dopo un rapporto incompleto, avrebbe chiesto come evitare di crescere prima del tempo a causa di un piccolo incidente di percorso, ma allora l’A.I. non c’era e nove mesi dopo Ann ebbe tutte le sue risposte.
Ma a noi appassionati di basket perché ci sta tanto a cuore la vita di una quindicenne che più di 50 anni fa viveva a migliaia di kilometri di distanza da noi senza l’ausilio dell’intelligenza artificiale? Ve lo dico io il perché! Perché se Ann avesse saputo tramite l’intelligenza artificiale che con una pillola si sarebbe risparmiata le fatiche del parto in piena adolescenza, oggi noi non avremmo potuto ammirare le gesta di uno degli “One Man Band” più iconici del basket a stelle e strisce degli ultimi 30 anni. Allen, questo è il nome del figlio di Ann, che inizia per A come Artificiale nonostante la personalità e il modo di esporla fosse di una naturalezza disarmante. Iverson, il cognome, che inizia per I, come Intelligenza, che magari applicata allo sport era di molto sopra alla media dei suoi pari, ma applicata alla gestione dei momenti critici della vita era di non poco sotto la linea di galleggiamento. Il cognome era giusto l’unica eredità lasciata dal padre di Allen che investì tutti i suoi sentimenti di amore paterno sulla figura di Tony Clark, amico conosciuto nel playground di quartiere. Tony era il fratello maggiore che Allen non aveva, rivestiva sia il ruolo di padre che lo aveva abbandonato, sia quello del patrigno che faceva la spola fra casa e carcere fino a dedicare a quest’ultimo tutta la sua attenzione a causa di un’accusa di omicidio. Tony riusciva a tenere ben salde le redini della vivacità e della rabbia di Allen. Non necessitava dell’Intelligenza artificiale per capire che quel terremoto di emozioni e vitalità avesse bisogno di uno sfogo e lo sport divenne la valvola perfetta. Allen era contemporaneamente il miglior giocatore di Basket e il miglior giocatore di Football della scuola e tutti erano concordi che in una e nell’altra disciplina avrebbe avuto successo.
O almeno finché fosse rimasto fuori dai guai. L’assassino di Tony Clark fu terrificante per Allen che vedendo venir meno la sua stella polare iniziò a sbandare fino a deragliare una sera al bowling con gli amici. Una rissa con pretesto a sfondo razzista lo vide accusato di un atto inconsulto e la giustizia fu irremovibile: 15 anni di carcere e carriera sportiva conclusa ancora prima di iniziare. I primi mesi trascorsi al Newport News Correctional Facilities lo forgiarono mentalmente e da lì ne uscì pulito per merito della grazia ricevuta dal Governatore della Virginia e grazie a dei filmati che non lo identificarono fra coloro che parteciparono alla rissa al bowling: “Il fatto non sussiste”. La vita di Allen torna a sorridere e la promessa fatta a mamma Ann di sfondare nello sport professionistico è il carburante per non perdere più la via. A dir la verità ci si aspettava una carriera da quarterback ma un animo nobile dalle origini umili lo accoglie tra le sue braccia indirizzando definitivamente la sua vita verso l’olimpo del Basket. È l’incontro fra mamma Ann e Coach John Thompson a spalancare le porte di Georgetown University al giovane Allen che nell’estate del 1996 si rende eleggibile al Draft per intraprendere la carriera da professionista.
Provate a chiedere all’intelligenza artificiale quale dovrebbe essere l’ordine di chiamate al draft del 1996, un draft che vide protagonisti Kobe Bryant, Steve Nash, Ray Allen e molti altri talenti. Non so cosa vi risponderebbe attualmente l’A.I., probabilmente indicizzerebbe i giocatori in base ai titoli conseguiti e classificherebbe Iverson indietro rispetto ai succitati compagni di draft. Ma la realtà dei fatti pose alla numero uno di quel draft i Philadelphia 76ers che scelsero Allen Iverson investendo sul suo talento le fortune di una franchigia lontana da troppo tempo dai vertici della Lega. Ecco un’altra domanda che vi potreste porre a questo punto. Cara Intelligenza Artificiale, ci racconti la carriera NBA di Allen Iverson? “Certo caro utente, Allen Iverson ha giocato per i 76ers con il culmine della carriera nel 2001 dove contese il titolo ai Lakers; fu la prima scelta assoluta al draft del 1996, ha vinto il titolo di rookie of the year nella stagione 1996-1997, ha vestito le maglie dei Denver Nuggets, Detroit Pistons e Memphis Grizzlies per ritirarsi dopo un anno in Turchia”. Ma a te che stai leggendo, che sei un vero appassionato di questo gioco e dei suoi protagonisti, basta realmente questa fredda panoramica riassuntiva di un fenomeno della palla a spicchi? Non sei curioso di saperne di più di capire il perché Allen Iverson è tutt’ora uno dei giocatori più apprezzati dai tifosi del Basket NBA?
E allora usiamo la tecnologia nel modo giusto, andiamo a ritroso nel tempo e facciamoci affascinare dai vecchi filmati, godiamoci in lingua originale il cross-over che mise a sedere sua Maestà Micheal Jordan, affidiamoci ai report del passato e scopriamo come su un corpo martoriato dagli infortuni Allen Iverson abbia vinto un titolo di MVP; se avete avuto la fortuna di vederlo, riportate alla memoria le serie contro Ray Allen allora ai Bucks e contro i Raptors di Vince Carter entrambe vinte in gara 7 da protagonista assoluto e non perdetevi, magari recuperando una vecchia VHS, la Gara1 di Finale contro i Lakers, a Los Angeles, nella quale mise a referto 48 punti espugnando lo Staples Center con il canestro decisivo realizzato passeggiando letteralmente sul corpo di un Tyronn Lue immolatosi per la causa; fatevi investire dall’arroganza con cui, davanti a decine di giornalisti citava per ben 22 volte la parola “practice” per recapitare un messaggio ben chiaro a uno dei suoi maestri, Coach Larry Brown. Questo era Allen Iverson, un tumulto di sensazioni ed eruzioni emotive e tecniche, magari non sempre istruttive, ma pur sempre genuine, concentrate in 183 centimetri scarsi di purissimo talento. Non racchiudetelo in una mera elencazione di premi e casacche indossate ma assaporatene ogni momento della sua carriera, respirate il suo mantra tatuato sulla spalla sinistra: only the strong survive, provate a emularlo nella sua capacità di rispondere a tutti gli ostacoli fisici e mentali; è solo così che ne apprezzerete il reale valore, anche senza l’ausilio dell’intelligenza artificiale.
Ah dimenticavo, vi devo ancora la mia “risposta” alla domanda che ho posto all’inizio: cosa identifica la sigla A.I.?
The Answer is Allen Iverson
----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.