Barriere - Nat, Chuck, Earl: cambiare la storia della pallacanestro si può

Barriere - Nat, Chuck, Earl: cambiare la storia della pallacanestro si può

(di FRANCESCO RIVANO). Sarei curioso di sapere quale sensazioni o quali pensieri evoca in ognuno di voi la parola barriera. Partiamo dall’analisi etimologica del termine. Il termine barriera deriva dal latino “barra” ed è una parola che porta con se connotazioni di natura geografica e storica in quanto utilizzato in antichità da quelle comunità sorte vicine a zone fangose o argillose. Sbarramento, steccato, riparo: questo cita uno dei più noti dizionari di italiano. È quindi il senso di protezione la prima sensazione suscitata dalla parola barriera e in effetti proprio le comunità arcaiche cercavano, con una barriera, di proteggersi dalle zone poco vivibili e insalubri. Una sorta di difesa costruita con il passare dal tempo anche per tutelarsi dai nemici e dai loro assalti bellici o per limitare i danni provocabili dagli agenti atmosferici. Ecco, il senso di limitazione può essere un'altra percezione relativa al termine barriera. Una barriera spesso tende non sono a delimitare due o più zone ben distinte, ma tende piuttosto a limitare il campo d’azione di alcuni individui, a volte di alcune specie animali, costretti a dover agire solo ed esclusivamente su spazi ristretti all’interno dei quali vengono chiusi. Chiusura, o segregazione! Questa è la percezione più oscura del termine barriera, ossia la necessità di racchiudere sia materialmente che figurativamente la libertà di un individuo. Barriere fisiche che tendono a segregare e ridurre il campo d’azione; barriere mentali che tendono a limitare la capacità di pensare e quindi di evolvere. Come è possibile poter crescere in quanto uomini se limitati da barriere? L’unico modo per progredire è abbatterle, ridurre il loro effetto costrittivo, sorvolare i limiti da esse imposte per soddisfare i propri bisogni e raggiungere i propri obiettivi.

Stati Uniti d’America, anni’20. Una delle barriere più limitanti della società  a stelle e strisce di quel periodo è sicuramente di matrice razziale. Nonostante gli anni dello schiavismo siano distanti, la mentalità gretta tendente a trovare delle differenze tra esseri umani in base al colore della pelle è persistente e radicata. Le leggi Jim Crow imponevano la segregazione razziale in qualsiasi ambito sociale, dalla scuola al lavoro, dai mezzi di trasporto allo sport. Insomma i neri da una parte, limitati nella vita quotidiana da barriere insormontabili, i bianchi dall’altra, liberi di godere del liberalismo tipico e osannato dagli americani. Gli episodi repressivi nei confronti degli afroamericani non facevano neanche più notizia, erano gli anni dell’avvento del Ku Klux Klan e del terrore; erano gli anni delle migrazioni massive da un ottuso Sud degli Stati Uniti verso un Nord più aperto e potenzialmente ricco di opportunità; erano gli anni della sopportazione e dell’affermazione della cultura nera che trovò in Harlem il quartier generale ove sprigionare i suoi effetti. Fu in questo contesto ricco di barriere che fra il 1922 e il 1928 vennero alla luce Nate, Chuck e Earl.

Nat, noto “Sweetwater” per la passione per le bibite analcoliche e un carattere mite, nasce in Arkansas nel 1922, ma la sua famiglia si trasferisce a Chicago quando lo stesso Nat ha poco più di otto anni. Alla High School mette in mostra tutto il suo talento per lo sport e tanto nel Basket, quanto nel Baseball, non ha rivali.
Chuck, figlio di un postino e di un’insegnante nasce nel 1926 e cresce a Pittsburgh in un clima piuttosto sereno per quanto serena poteva essere la vita di un afroamericano nel periodo della segregazione razziale. La solidità della famiglia lo tiene lontano dai pericoli e la passione per il basket diventa rapidamente una valvola di sfogo alla Westinghouse High School. Nel suo periodo da studente liceale Chuck porta la sua scuola a vincere il torneo cittadino e nel suo ultimo anno viene nominato come centro All-City.
Earl è il più giovane dei tre. Nasce nel 1928 ad Alessandria, Virginia  e nel liceo segregato Parker-Gray High School viene riconosciuto come studente modello e come specialista difensivo della squadra di basket entrando a far parte del novero degli All-State Virginia.

Le vite dei tre ragazzi, per stato sociale, passioni e capacità viaggiano in parallelo e il loro cammino, sia scolastico che sportivo, prosegue al College. Nat, ottiene una borsa di studio alla Xavier University of Louisiana di New Orleans. L’avvento della seconda guerra mondiale lo costringe ad arruolarsi nell’esercito e prestare servizio in Europa. Eh si, perché i neri erano segregati e disprezzati a ogni livello sociale, ma quando allo Zio Sam serviva carne da macello da mandare in guerra, gli afroamericano venivano riabilitati come membri attivi della società. Quella esperienza atroce e traumatica impedirà a Nat di proseguire gli studi e conseguire la laurea.  Chuck e Earl invece frequentano entrambi il college West Virginia State. Chcuk resta nel West Virginia il tempo di un semestre; anche lui come Nat deve prestare servizio e lo fa presso la Marina Militare con la guerra che volge al termine. Una volta conclusa la guerra Chuck riparte dalla Duquense University, per la quale stabilisce il record di punti segnati nel quadriennio e dove venne nominato All –American. Earl nel West Virginia invece si stanzia e scrive pagine importanti per il suo College. Emerge sia come studente laureandosi con successo in educazione fisica, sia come atleta portando la sua squadra a vincere il torneo della Central Intercollegiate Athletic Association e venendo nominato per ben due volte come All-American.

Primavera del 1950. Le strade dei tre ragazzi, fin li parallele si intersecano, prima come compagni di squadra e successivamente per scrivere la storia del basket degli Stati Uniti d’America. Nat, una volta finita la guerra venne ingaggiato dalla squadra simbolo del basket afroamericano statunitense della prima metà del XX Secolo: i New York Renaissance. Nei Rens gioca, si diverte e mette in mostra il suo talento senza perdere il vizio del Baseball disputando la stagione del 1949 con i Chicago American Giants. Nel 1948 però alle porte di Nat “Sweetwater” bussano gli Harlem Globetrotters e il nativo dell’Arkansas non può rifiutare. In una società come quella statunitense degli anni ’40, dove la segregazione razziale ancora imperava e lo sport professionistico era precluso ai ragazzi di colore, squadre come i Rens e i Globetrotters erano fondamentali per far emergere il talento dei ragazzi di colore e Nat  sfrutta ogni occasione. Nella primavera del 1950 Nat viene raggiunto nella squadra fondata da Abe Saperstein sia da Chuck che da Earl.

L’avventura con la magia a stelle e strisce dei ‘Trotters per dura poco per il trio inedito perché alle porte del Draft Nba del 1950 succede qualcosa di inaspettato e di impensabile fino a qualche mese prima. Nat, Chuck e Earl sono troppo forti per poter essere segregati anche a livello sportivo e tre proprietari della Lega emergente del basket americano compiono un passo storico. Nat “Sweetwater” Clifton diventa il primo giocatore di colore a firmare un contratto Nba e a dargli l’opportunità sono i New York Knicks; Chuck Cooper diventa il primo giocatore di colore a essere selezionato al draft Nba e a farlo sono i Boston Celtics; Earl Lloyd, scelto allo stesso draft dai Washington Capitols al nono giro, nella opening night della stagione 1950/1951 diventa il primo giocatore di colore a scendere in campo nella NBA.

Nat, Chuck e Earl, passati alla storia come la Holy Trinity del basket afroamericano, in quel 1950 hanno abbattuto una delle barriere più alte, più forti, più resistenti che lo sport statunitense abbia mai eretto e la dignità con cui l’hanno fatto è stata straodinaria per gli effetti che ha provocato nell’avvenire dello sport a stelle  strisce. Sia chiaro che tutti e tre i ragazzi hanno dovuto continuare fare i conti con la meschinità della mentalità razzista dell’epoca: hanno dovuto subire inermi ogni singolo insulto del pubblico durante le partite in trasferta, hanno dovuto soggiornare in hotel diversi da quelli destinati ai bianchi, mangiare in ristoranti diversi da quelli destinati ai bianchi, addirittura sono stati marginalizzati dalla stessa Lega che ha aperto loro le porte, pur di non doverli attribuire uno status di super star. Nonostante ciò il loro ingresso nella NBA è stato uno spartiacque decisivo per lo sviluppo del gioco, uno spartiacque voluto non solo da loro ma anche dalla presenza di persone sagaci e capaci di comprendere quanto lo sport potesse essere importante per unire e non per dividere, per insegnare e non per impedire.  Fra questi è emersa sicuramente la personalità di Red Auerbach che ha avuto il merito di imporsi e di segnalare al suo proprietario la necessita di valutare i giocatori disponibili al draft non in base al colore della pelle, ma in base alle capacità tecniche. Ed emblematica è stata la frase con cui lo stesso proprietario dei Boston Celtics, nonché co-fondatore della NBA, Walter Brown, ha accolto l’ingresso di Chuck Cooper nella sua squadra: “Non me ne frega niente se è a righe, a quadri o a pois, i Boston Celtics si prendono Chuck Cooper di Duquense”.

Le medie, i numeri, le stagioni disputate da Nat, Chuck e Earl nella NBA non sono di certo tali da annoverarli tra i giocatori più forti di sempre; Nat, arrivato in tarda età nella Lega ha giocato sino al 1957 per poi dedicarsi nuovamente alla sua grande passione per il Baseball; Chuck ha lasciato i Celtics proprio quando la dinasti di Boston stava iniziando a decollare e un successivo infortunio alla schiena, causato da un incidente d’auto, lo ha costretto a lasciare il basket giocato dopo solo sei stagioni; Earl è stato il più longevo dei tre all’interno della Lega, ha chiuso la sua avventura con la maglia dei Detroit Pistons collezionando la media punti più alta dei tre. Ciò che deve essere ricordato della Holy Trinity non deve però assolutamente basarsi sul mero conteggio dei numeri che hanno prodotto nelle diverse categorie statistiche; ciò per il quale Nat, Chuck e Earl entrano di diritto nella memoria storica del gioco del basket è stata la loro capacità di abbattere la barriera del pregiudizio; di affrontare con coraggio, in prima linea, il fuoco nemico della discriminazione razziale; di aver dato forza ai loro successori per poter seguire le loro orme; di uscire dalla chiusura imposta dal pensiero, all’epoca comune (e ancor oggi piuttosto presente), che esistano delle differenze fra esseri umani. Insomma, la loro capacità di resistere nelle difficoltà e ribellarsi ai limiti, alle barriere, ai confini pur di raggiungere i loro obiettivi è stata da esempio per tutti i ragazzi afroamericani volenterosi di emergere e desiderosi di non farsi chiudere e ingabbiare da barriere costruite da altri per loro, non per proteggerli ma per limitarli.

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.