Ben Simmons, la grande delusione di un fenomeno generazionale

(di GIOVANNI BOCCIERO).
Nell’estate in cui John Wall si è ufficialmente ritirato all’età di 35 anni, Russell Westbrook è ancora alla ricerca di una nuova sistemazione alla soglia dei 37 anni, e Chris Paul ha annunciato che questa sarà la sua ultima stagione a 40 anni compiuti e dopo venti di onorata carriera, la Nba sta cercando di capire se ci sarà ancora posto per Ben Simmons. All’inizio della sua carriera, l’australiano è stato paragonato a LeBron James e Magic Johnson, e c’era la forte convinzione che potesse diventare il nuovo fenomeno generazionale della lega più famosa del mondo.
E invece, in meno di un decennio da quando Simmons è stato scelto con la prima chiamata al draft del 2016, è passato dall’essere il potenziale miglior giocatore del mondo, così come lo descrisse Shaquille O’Neal dopo che l’australiano aveva deciso di giocare all’università per Louisiana State nel 2015 (ex college di Shaq), a «una vergogna», come lo ha più volte definito nei talk show sportivi americani il giornalista ed opinionista Stephen A. Smith.
Un fenomeno generazionale
Ma fermiamoci un attimo e riavvolgiamo il nastro della vita/carriera di Simmons. Prodigio sin da giovanissimo, passato per l’accademia australiana che cova i migliori talenti del paese, nel 2013 si è trasferito insieme a tutta la famiglia negli Stati Uniti perché si intravedeva un grande potenziale. Si è stabilisce in Florida e frequenta la Montverde Academy, uno dei licei più rinomati d’America. Ci mette poco ad ambientarsi fuori e soprattutto dentro il campo, dove letteralmente domina: 28 punti tirando con il 70% dal campo, 11.9 rimbalzi, 4 assist e 2.6 recuperi di media nell’ultimo campionato con ben 24 doppie doppie.
Dopo qualche trofeo e premio personale già messo in bacheca, è tempo di scegliere dove andare a giocare al college. La scelta ricade su Lsu di Baton Rouge, una decisione quasi scontata visto che nello staff tecnico c’è il suo padrino. Nonostante avesse la fila fuori la porta di casa dei più prestigiosi college di tutto lo stato, diventa un Tiger. Ma è una semplice formalità. Per lui, in realtà, la stagione in Ncaa è soltanto una perdita di tempo. Avesse potuto, si sarebbe subito dichiarato per il draft. Non a caso, nel secondo semestre smette di seguire i corsi scolastici e con la squadra ormai con un piede fuori dalla March Madness decide di prepararsi soltanto per il salto in Nba.
Lo scelgono i Philadelphia 76ers, convinti di formare una coppia da capogiro con Joel Embiid. Dopo l’apparizione alla Summer League di Las Vegas, però, riporta il primo di una lunga serie di infortuni che ne hanno evidentemente minato la carriera. Durante il training camp autunnale si frattura il quinto metatarso del piede destro ed è obbligato a saltare l’intera stagione d’esordio. Si rifà con gli interessi dodici mesi dopo, abbinando la visione di gioco e la capacità di passaggio di un playmaker all’abilità nel prendere i rimbalzi di un’ala forte. Per questo, di fronte ai suoi 2.08 metri d’altezza, s’inizia a parlare di capostipite della point-forward. Praticamente una nuova specie di giocatore.
Conclude le prime tre partite della carriera in Nba con la doppia doppia, ed alla quarta confeziona anche la prima tripla doppia da 21 punti, 12 rimbalzi e 10 assist nella vittoria contro Detroit. Unici rookie ad esserci riusciti così precocemente: Oscar Robertson nel 1960 e Art Williams nel 1967. Viene naturalmente convocato per il Rising Star e si aggiudica il premio di rookie dell’anno grazie alle medie da 15.8 punti, 8.2 assist e 8.1 rimbalzi, che gli permettono di collezionare 12 triple doppie e chiudere sul podio alle spalle di Westbrook primatista con 25, e LeBron James con 18. Però c’è una statistica che balza agli occhi, ovvero le triple tentate: 11. Non in una gara, ma nell’intera stagione regolare.
L’etica del lavoro latita
Nelle stagioni trascorse a Philadelphia, ovvero quattro, il tiro dalla distanza è stato il suo tallone d’Achille. Per quanto con la sua destrezza e forza fisica riusciva ad essere altamente efficace vicino al ferro, dall’arco non guardava neppure il canestro. Addirittura coach Brett Brown ha provato a stimolarlo dicendo pubblicamente che Simmons doveva prendersi almeno una tripla a partita. Visto che nella seconda e terza stagione i tiri tentati dall’australiano sono stati 6 e 7 in 138 partite totali, possiamo affermare che il messaggio non sia stato affatto recepito.
Ed è in questi anni che precedono il 2020, che inizia ad aleggiare la convinzione di una scarsa attitudine ed etica del lavoro da parte dell’atleta. Herb Magee ha allenato alla Thomas Jefferson University di Division II dal 1967 al 2022, raccogliendo 1.123 vittorie in carriera. Negli Stati Uniti allenatori come Magee sono considerati dei veri e propri guru, e si è guadagnato il soprannome di ‘shot doctor’. Proprio per questo più volte in città si è discusso sulla possibilità che potesse lavorare con Simmons. «Non succederà – aveva risposto l’allenatore a precisa domanda dei cronisti di Philadelphia -. Brett Brown, di cui sono diventato amico, mi ha chiesto di farlo e gli ho detto: “Lo farò, ma devi chiederlo a lui”. Non mi ha mai risposto. Quindi, Ben è il tipo di persona che non vuole davvero migliorare».
In quelle stagioni sono diversi i giocatori di grande caratura che indossano la casacca dei Sixers. JJ Redick sembra che abbia provato a consigliarlo da giocatore veterano qual era, così come Jimmy Butler che ha cercato in tutti i modi di motivarlo, finendo però per gettare la spugna. Secondo il giornalista Zach Harper di The Athletic, Butler era arrivato al punto da «non considerava Simmons un giocatore al suo pari», esattamente come Embiid, con il quale l’australiano alla fine sembra essersi scontrato poco prima di chiedere la trade per cambiare aria.
Sul tiro di Simmons aveva parlato addirittura Kobe Bryant, che in un’intervista aveva detto: «Deve migliorare il tiro in sospensione, perché altrimenti se ne pentirà quando la sua carriera sarà finita. Guardate cosa sta facendo ora, e immaginate se diventa pericoloso anche al tiro. È sorprendente. Non vorrei ritirarmi, guardarmi indietro e dire: “Cavolo, se avessi avuto un tiro in sospensione, cosa avrei fatto?”. Quindi non mi interessa se deve chiudersi in palestra per dieci ore al giorno. Se questo ragazzo riesce a costruirsi un tiro in sospensione, diventa un problema serio».
Il momento esatto della fine
Non capita spesso di poter individuare il momento esatto in cui una promettente carriera va letteralmente a rotoli, ma nel caso di Simmons c’è una data da poter cerchiare in rosso sul calendario: 20 giugno 2021. Negli ultimi tre minuti della decisiva gara 7 della semifinale della Eastern Conference, l’australiano si è trovato di fronte alla possibilità di una facile schiacciata, o comunque un appoggio al vetro, per un canestro che sarebbe valso il pareggio di Philadelphia contro Atlanta. E invece, dopo essersi liberato dalla marcatura in post basso di Danilo Gallinari, Simmons ha passato il pallone al compagno Matisse Thybulle che in posizione più difficile ha subito fallo.
In 12 partite giocate in quei playoff, vittoria per 4-1 contro Washington e poi sconfitta per 4-3 con gli Hawks nonostante la testa di serie numero uno per i Sixers, Simmons ha realizzato solo 25 dei 73 tiri liberi tentati, il che equivale al 34%. Si tratta del peggior risultato in una singola post season nella storia della Nba. L’australiano ha fatto peggio persino di Wilt Chamberlain e Shaquille O’Neal. Al già scarso tiro dall’arco, si sono aggiunte le difficoltà dalla lunetta che hanno chiaramente minato la sua fiducia, e questo si è riversato in altri aspetti del suo gioco.
Con l’amara eliminazione, e viste le prestazioni molto al di sotto del proprio livello, in conferenza stampa è stato chiesto a coach Doc Rivers se Ben Simmons fosse un playmaker da squadra per il titolo. L’allenatore, un po’ tergiversando, ha risposto forse in maniera schietta: «Non conosco la risposta in questo momento». Quella frase ha fatto sì che il rapporto tra il giocatore e tutto l’ambiente dei Sixers si deteriorasse definitivamente.
Il contratto quinquennale da 177 milioni di dollari firmato appena un anno prima con la franchigia di Philadelphia, lo ha reso incredibilmente ricco ed altrettanto odiato dai tifosi. Una somma di denaro che l’ha portato ad acquistare una serie di auto di lusso, dalla Ferrari 812 Gts alla Bentley Continental Gt W12 personalizzata, passando per la Rolls-Royce Cullinan e la Porsche 918 Spyder. Per questo per molti appassionati di basket ha rappresentato l’archetipo di un certo tipo di stella moderna dell’Nba, ovvero il giocatore che è più interessato a far salire il livello del proprio conto in banca piuttosto che le sue statistiche.
Dopo un tira e molla durato mesi, che l’ha visto rifiutarsi di giocare per i Sixers nonostante Rivers abbia provato a ricucire il rapporto convincendolo a restare, è arrivata la trade con Brooklyn. Ai Nets l’esperienza è stata pessima. Ha saltato il resto della stagione 2021/22 per un’ernia alla schiena che lo ha portato a diversi interventi chirurgici, e a giocare soltanto 90 partite in due anni e mezzo. Un’avventura poco fortunata con la squadra che gioca al Barclays Center, conclusa col triste epilogo del taglio avvenuto lo scorso 8 febbraio 2025. E pensare che l’estate precedente, a Tommy Alter del podcast “The Young Man and the Three”, aveva detto di aver quasi deciso di ritirarsi a causa della frustrazione provata dopo le operazioni alla schiena.
Non è finita finché non è finita
Neppure le 18 gare disputate nel finale dell’ultimo campionato con la casacca dei Los Angeles Clippers hanno riportato l’atleta ad un livello di gioco accettabile. Prima di lasciare Brooklyn, Simmons si è raccontato in una lunga intervista al sito Haute Living, toccando temi personali e molto importanti, dagli infortuni alla depressione e a quanto i social abbiano influito, o influenzato, questo suo stato d’animo. «Dopo due anni di infortunio e diversi interventi chirurgici alla schiena, poter scendere in campo ed essere in salute mi dà gioia. Il mio obiettivo era presentarmi ogni giorno in palestra e allenarmi, e ne sono grato».
Ritenuto troppo debole per l’Nba, un atleta rinunciatario, Simmons ha parlato con eloquenza delle sue difficoltà con la salute mentale, di come la depressione e il peso delle aspettative abbiano ostacolato il suo sviluppo. Cadono a pennello, in questo senso, le dichiarazioni di un altro cestista dal passato spesso contestato come JaVale McGee, che ha affermato come i media e ad esempio le clip di Shaqtin’ a Fool hanno diffuso l’idea sbagliata del giocatore che in realtà è, facendolo considerare stupido dai tifosi che lo vedevano calcare i parquet.
Le incessanti chiacchiere sulla carriera dell’australiano, per lo più negative, sono state dannose per il processo di guarigione. E tutto ciò che lo ha coinvolto e turbato lo hanno spinto a diventare una persona casalinga. E non solo, perché «non riesco quasi più ad andare online. Quando sono entrato in Nba, i social media erano importanti ma di certo non come oggi – ha continuato Simmons -. Ho la sensazione che le persone siano molto più permissive, e di conseguenza peggiori. È spaventoso perché è il mondo in cui viviamo. Penso che i commenti che accompagnano il tutto siano la parte peggiore della lega. A volte non si tratta di basket in sé, ma del lato commerciale, o delle buffonate che ne conseguono. Ecco perché non commento molto online: mi si ritorce sempre contro».
Eppure proprio un suo commento, molto di recente, ha fugato dalla possibilità delle insistenti voci di un suo ritiro, quando ha risposto proprio ad un utente con un secco no. Nonostante un abboccamento con i New York Knicks che lo vorrebbero ingaggiare, c’è chi a Philadelphia lo rivorrebbe subito. Il sito web The Liberty Line sta facendo una vera e propria campagna di convincimento per il suo ritorno, affinché si completi quello che aveva iniziato e per chiudere così un cerchio.
Ma la carriera di Simmons ha vissuto così tante delusioni, che rispetto ad altri giocatori più o meno sfortunati non è riuscito neppure a trovare sollievo con la nazionale. Non a caso ha ripetutamente promesso di rappresentare l’Australia ai grandi tornei per poi ritirarsi all’ultimo minuto. Sembra, infatti, che a distanza di anni nutra ancora rancore per il 2014, quando si aggregò alla preparazione dei Boomers prima della Coppa del Mondo per poi essere escluso dalla rosa finale. Anche in questo contesto è stato scavalcato da Josh Giddey, il play dei Chicago Bulls che rappresenta il futuro del basket australiano. Simmons un tempo era il futuro della pallacanestro mondiale, ma oggi sempre più sembra essere soltanto il passato. Un passato che prometteva tanto e che ha mantenuto solo a singhiozzo.
(GIOVANNI BOCCIERO)
(Questo articolo è stato in origine pubblicato su stepback.basketball)