Arroganza, timidezza, trash talking: la leggenda di Larry Bird
(di FRANCESCO RIVANO). Nel medioevo, negli ambienti ecclesiastici, era prassi, a titolo edificativo e/o esemplare, utilizzare la narrazione della vita dei santi miscelando l’elemento storico realmente accaduto con arricchimenti di natura fantasiosa. Con questa forma di racconti si tendeva a mostrare alla società come alcune azioni o comportamenti, enfatizzati al limite della credibilità, dovessero essere presi come esempio per condurre una vita moralmente retta. Insomma una sorta di narrazione distorta necessaria a standardizzare i comportamenti sociali al fine di disciplinare i modi di fare e il modo di pensare verso un’etica impostata dalla sovranità morale della chiesa. Un esempio classico è la leggenda di San Martino che per aiutare un mendicante infreddolito divise il suo mantello con la spada porgendogliene una metà, ottenendo così che il clima da rigido si trasformasse in mite. Un chiaro esempio di come la chiesa volesse dimostrare tra realtà e fantasia quanto la carità cristiana potesse essere un viatico per ottenere una condizione di vita migliore. Legendus, dal latino medievale, quindi “da leggersi”; è questa l’origine della parola leggenda che tutt’oggi viene utilizzata per la narrativa delle grandi gesta, anche sportive. Di leggende sportive se ne conoscono tante: la leggenda di Babe Ruth e la maledizione del Bambino narra le prodezze di uno dei più grandi di sempre del Baseball: si racconta che negli anni ‘20 il suo passaggio dai Boston Red Sox agli arcirivali New York Yankees abbia dato il via alla maledizione che avrebbe impedito alle calzette rosse di vincere le World Series sino al 2004; altra leggenda sportiva è quella del ciclista Fausto Coppi che con le sue imprese in sella, la Cuneo – Pinerolo tra tutte, ha dato speranza a un paese ancora intento a leccarsi le ferite provocate dalla guerra; chi non conosce la leggenda di Diego Armando Maradona e della “Mano de Dios” nata durante i quarti di finale del mondiale del Messico dell’86 contro i rivali inglesi. Insomma dal sacro al profano la leggenda è tutt’ora una prassi narrativa utilizzata per enfatizzare le gesta di un personaggio capace di distinguersi nell’ambito in cui si mette alla prova.
Quando si racconta una leggenda si parte sempre dai momenti precedenti all’avvento del grande episodio o delle gesta eroiche, un po’ per allungare il brodo, ma soprattutto per far capire agli ascoltatori o ai lettori quanto attraverso l’impegno, la passione e la forza di volontà si possa migliorare la propria condizione di vita e quella degli altri.
West Baden, dicembre del 1956, Georgia Marie e Claude Joseph, noto “Joe” ricevono come regalo di Natale anticipato il quarto figlio. Tra lingue di asfalto infinite, lunghe distese pianeggianti di campi di mais, auto da corsa e una passione per il basket grande tanto quanto quella per i cavalli di razza, nella contea di Orange, Indiana, la vita della famiglia guidata da Joe è fondata sull’agricoltura. French Lick non è esattamente Manhattan, così come gli stipendi che gravitano nelle mani delle famiglie residenti nella piccola cittadina dell’Indiana sono ben lontani dai soldoni che circolano a Wall Street. La prima passione che sviluppa un ragazzino nella contea di Orange a fine anni ’50 è quella per la terra; alla domanda “cosa ti piacerebbe fare da grande” la risposta di ogni bimbo è: “il contadino”. Almeno fino a quando la scuola non mette nelle mani degli alunni una palla da basket. È proprio a scuola che il figlio di Joe e di George Marie prende per la prima volta una palla da basket in mano e da lì in poi entrerà in simbiosi con essa. La vita in famiglia non è una passeggiata; i trascorsi di papà Joe, veterano della seconda guerra mondiale e della guerra di Corea, non garantiscono la serenità necessaria per vivere e crescere in un ambiente sano e il basket diventa la via di fuga per il piccolo Larry. Una via di fuga che pian pian forgia un piccolo campione, tanto che alla Spring Valley Hihg School uno così forte non lo avevano mai visto. 31 Punti di media, 21 rimbalzi a serata e record di punti della scuola disintegrato in un amen; il tutto con la casacca n. 33 sulle spalle in onore del fratello Mark.
Siete bravi in matematica? Vi propongono una piccola operazione: se sommate la cittadina di French Lick, alla maglia numero 33 e alla buona attitudine al canestro quale è il risultato? Ovviamente Larry Joe Bird. È quindi nell’Indiana che nasce la leggenda di uno dei più grandi giocatori che abbiano calcato i parquet della Nba. Siamo tutti concordi nell’individuare la carriera universitaria di Larry Bird con la casacca celestina e la numero 33 dei Sycamores di Indiana State. Iconica è la sfida alla Michigan Stete Univsersity contro i quali, ha dato via all’epopea dell’eterna sfida con Magic Johnson all’epoca in maglia Spartans. In realtà la carriera universitaria di Larry parte con la maglia della più prestigiosa Indiana University. Gli Hoosiers guidati da coach Bobby Knight sono effettivamente la squadra di rifermento del college basketball in Indiana, ma Larry a Bloomington si trova a disagio. Troppo grande il campus per un ragazzo schivo, abituato ai campi di mais, troppo affollato per chi è abituato alla tranquillità di un paesino di poco più di 1.500 anime. Larry a Bloomingotn dura il tempo di capire che forse alla carriera universitaria è preferibile un degno lavoro da netturbino e così ritorna a casa alla guida del mezzo comunale dedicato al ritiro della spazzatura. Quando i demoni, in pieno controllo delle facoltà mentali di papà Joe, portano il padre di Larry al suicidio, il ragazzo si chiude in se stesso, inasprisce un carattere già di per se introverso fino a travalicare nella rudezza spesso associata, per pregiudizio, ai contadini. Villano, becero, pronto a ad avere una “cattiva” parola per tutti, o almeno questo pensa la gente di lui, Larry in realtà si arma di una corazza scalfita solo dalla passione per il gioco e ritorna a pensare all’università e alla carriera cestistica. Come detto in precedenza è Indiana State a ad accoglierlo nel campus di Terre Haute e con la maglia dei Sycamores attira l’attenzione del geniale Red Auerbach che lo sceglie al draft del 1978 salvo lasciargli l’opportunità di chiudere la carriera universitaria.
26 Marzo del 1979, Salt Lake City: da un lato il sorriso inebriante di chi ha vinto un titolo NCAA e si appresta a sbarcare nella NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers; dall’altro le lacrime che rigano il viso di chi sbarcherà ugualmente nella NBA, in maglia Celtics, ma ha appena perso una partita alla quale ha partecipato passivamente a causa di un problema fisico. È da qui che si alimenta il fuoco che incendia il cuore di Larry Bird e che lo porterà a competere in maniera ossessiva per tutta la carriera da professionista. Tanto più che al termine della prima stagione da pro, Larry è costretto a vedere ancora una volta Magic sollevare, da assoluto protagonista, il titolo più ambito della loro stagione sportiva e questa volta parliamo del titolo NBA. Larry è allergico alla sconfitta, è allergico agli avversari, è allergico a tutto che gli gravita attorno a meno che non sia una palla da basket e quella palla la fa cantare. È il dualismo tra Magic e Larry a risollevare le sorti di una Lega nelle mani della cocaina e prossima al declino; è il dualismo tra Larry a Magic a riscaldare i cuori dei tifosi, a riaccendere la fiamma della rivalità fra Los Angeles e Boston, fra West Coast e East Coast, a tenere svegli gli appassionati europei e del resto del mondo. E in effetti Magic e Bird si suddividono gli anni ’80 vincendo 8 dei 10 titoli in palio nel decennio. Se avete bisogno di numeri vi rimando ai classici siti capaci di sgranare ogni statistica, anche la più particolare, qui ci limiteremo a raccontare che Larry Bird si è dovuto ritirare a causa di una schiena usurata all’inverosimile non prima però di aver preso parte alle Olimpiadi di Barcellona in quel Dream Team che tutt’ora è la squadra di basket migliore mai allestita dal 1891 a oggi.
Ciò su cui ci soffermeremo è il racconto fra realtà e fantasia che Larry ha ispirato nel corso della carriera. Larry Bird se è stato un campione tra i migliori di sempre nel basket è da considerarsi ancora più in vetta nella classifica dei più grandi trash talker dell’intero panorama sportivo. La supponenza con cui si rapportava agli avversari era tale da ricoprirlo di un aura d’odio che investiva chiunque gli si ponesse vicino e non parlo solo di avversari che hanno subito da Larry “pensieri, parole, opere e omissioni” di qualsiasi genere. Larry era quel tipo di giocatore che se decideva di affrontare una partita usando solo la mano debole, non solo lo faceva, ma dominava la scena come fece il 14 febbraio del 1986 contro i Portland Trail Blazers, andando in tripla doppia da 47 punti, 14 rimbalzi e 11 assist: motivo? Risparmiare la mano forte per la successiva partita contro gli odiati Lakers. E ovviamente non facendo mancare il commento tecnico per il solo scopo di sottolineare la sua superiorità. Larry era quel tipo di giocatore che dava informazioni sulle sue successive mosse agli avversari per umiliarli e mostrare al mondo intero che nessuno avrebbe limitato la sua capacità di andare a segno nonostante spiegasse anticipatamente le sue intenzioni ai difensori. Bird era il tipo di giocatore capace di intimidire gli avversari con poche parole. Shawn Kemp racconta che durante il suo primo scontro con i Celtics Larry gli abbia riservato un trattamento speciale di benvenuto. Il tutto perché Shawn si era macchiato dell’onta di aver battuto i record scolastici statali del nativo di French Lick e di aver schiacciato in testa al fratello minore Andy. Morale della favola? Tripla doppia ai 40 punti con tanto di benvenuto nella lega a The Reign Man. Si potrebbe pensare che questo atteggiamento all’interno di un campo possa essere anche comprensibile e finalizzato al solo scopo di vincere e partite, cosa che tra l’altro gli sarebbe riuscita piuttosto bene anche senza proferir parola. In realtà Larry era schivo con tutti, talmente tanto da deragliare a volte nella arroganza.
Ottobre del 1988, a Madrid va in scena il Mc Donald’s Open con la partecipazione ovviamente delle merengues, della nazionale Jugoslava, della Scavolini Pesaro fresca campione d’Italia e i Boston Celtics. L’inviato italiano al seguito della Vuelle si imbatte casualmente nei Boston Celtics e memore della promessa fatta alla figlia (“ti porterò l’autografo del tuo idolo Larry Bird) si avvicina al numero 33 in maglia bianco verde, gentilmente allunga carta e penna e sfoggiando il miglior sorriso di cui disponesse abbozza un “please, for my daughter”. Il fastidio che prova Larry a quella domanda è direttamente proporzionale alla delusione che il nostro compatriota prova una volta ottenuta la risposta: “forget it.” Maleducato? Insolente? Arrogante? Semplicemente Larry Bird di tutto punto agghindato con la sua corazza anti rapporti umani che ha imparato a indossare per tutelarsi fin da quando era bambino.
Leggenda: narrazione nella quale si miscelano i contenuti reali e quelli di fantasia. Beh di contenuti reali nel racconto di Larry Bird ce ne sono e anche tangibili e la sua carriera da cestista e da trash talker è alla portata di tutti; di contenuti di fantasia ce ne sono altrettanti e quello più pronunciato è quello che vuol mettere in evidenza l’insolenza del campione dell’Indiana. In realtà chi lo ha conosciuto per davvero assicura che il suo comportamento all’apparenza particolarmente “villain” fosse auto protettivo e che con le persona vicine sia anche molto cordiale, ma si sa, la parte fantasiosa è sempre quella più affascinate, senza di essa cade il presupposto della leggenda e non si può prescindere dalla leggenda quando si racconta Larry Legend. Ah, volete sapere come è andata al ritorno a casa del giornalista italiano quando la figlia gli ha chiesto se avesse ottenuto l’autografo da Larry Bird? Via da casa i poster del numero 33 dei Cletics per sostituirli con quelli del 32 dei Lakers e mai più una parola su Larry Bird in famiglia. Verità o leggenda? Chi lo sa, ma senza quel tocco di fantasia ogni storia perde la sua magia.
----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.