Charlie Yelverton si racconta tra Kareem Abdul Jabbar e Kobe Bryant
Charlie Yelverton ha segnato una lunga stagione alla Pallacanestro Varese con il suo talento di attaccante nel corso degli anni Settanta. Era arrivato in Italia dopo che la sua azione di protesta negli USA contro la guerra nel Vietnam gli aveva chiuso le porte della NBA. Coppa dei Campioni, scudetto, una squadra talentuosa come poche con Bisson, Gualco, Meneghin, Ossola e Rusconi sotto la guida di Sandro Gamba. Le sue parole alla Gazzetta dello Sport in edicola oggi: "Sembrerà strano, ma credo di essere stato soprattutto un grande difensore. Ho imparato il basket nei playground di Harlem, dove non esistono regole e dove per prima cosa devi impedire agli avversari di segnarti in faccia. Alle scuole elementari, mi facevano giocare contro bambini più grandi di me di due anni, ho dovuto crescere in fretta se non volevo essere travolto».
Dopo aver finito la carriera agonistica si è diviso tra l'amore per la pallacanestro e la passione per la musica, imbracciando quel sax che gli era stato "venduto" da Kareem Abdul Jabbar: "Ci conosciamo fin da ragazzi, siamo entrambi di New York anche se lui viene dal Bronx: e poi ci siamo sfidati al liceo, lui alla Power Memorial e io a Rice, un po' come Milan e Inter. Quando sono andato a giocare a Milwaukee con i Blazers, mi ha invitato a casa sua, avevamo entrambi la passione per gli scacchi. In soggiorno aveva un Selmer, la marca di sassofoni più celebre del mondo. Quando seppe che avevo un sax anch'io, ma di qualità decisamente inferiore, si offrì di vendermi il suo. Lo pagai cento dollari, ne valeva più di mille."
E a sorpresa spunta un aneddoto su Kobe Bryant: "Fu a un camp che organizzavo all'Abetone, era il 1990, me lo portò suo padre Joe. Kobe aveva 12 anni, si intravedeva già un talento pazzesco, però quando aveva la palla non la passava mai e cercava sempre di tirare, e poi non rientrava a difendere. Quando gli chiesi chi fosse il suo idolo, lui mi rispose "Michael Jordan". Allora lo presi da parte e gli dissi di guardare i suoi video, e di valutare se le giocate decisive fossero quelle in attacco o in difesa. E gli insegnai pure a migliorare il palleggio con un esercizio che avevo inventato io, partendo da sei posizioni diverse della palla attorno al corpo. Qualche anno più tardi, quando Kobe firmò il suo primo contratto milionario con i Lakers, suo padre mi mandò scatole e scatole di materiale tecnico, accompagnate da un biglietto: "senza di te questo non sarebbe stato possibile"»