Le regole si ritorcono contro Adam Silver: i premi All-Star finiranno a seconde file

Le regole si ritorcono contro Adam Silver: i premi All-Star finiranno a seconde file
© foto di nba.com

La NBA, prima o poi, dovrà mettere mano a quella regola delle 65 partite infilata nel CBA a partire dalla stagione 2023-24. Quella che all'inizio sembrava un'idea interessante per arginare il load management - la gestione del riposo dei grandi campioni -, oggi è diventata un boomerang che rischia di trasformare i libri dei record in qualcosa di poco serio. Con l'infortunio che dovrebbe tenere fuori Nikola Jokic per circa un mese, la discussione è riesplosa con forza: il minimo stagionale di gare per essere eleggibili a premi e quintetti All-NBA sta finendo per penalizzare proprio i giocatori che questi riconoscimenti li meriterebbero più di tutti. L'intenzione di Adam Silver era buona, nessuno lo mette in dubbio, ma la norma così com'è concepita sta colpendo gli infortunati veri, non chi si gestisce scientificamente il calendario.

Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: la regola era nata per punire le squadre che tenevano a riposo le proprie stelle senza reali problemi fisici, ma sta finendo per togliere visibilità e premi a chi, semplicemente, è stato sfortunato. Victor Wembanyama ne è stato la prima grande vittima: la complicazione legata al problema di coaguli di sangue gli ha precluso la corsa al Defensive Player of the Year e l'accesso a qualsiasi All-NBA Team, nonostante il livello del suo impatto fosse da élite assoluta nello scorso campionato. In questa stagione, Giannis Antetokounmpo ha già saltato un numero significativo di partite e ora si aggiunge il caso Jokic. Davvero possiamo immaginare un All-NBA Team senza il greco, senza l'Alien e senza il Joker, mentre sul parquet continuano a produrre prestazioni che definire dominanti è poco? Solo a formularla, l'idea fa sorridere amaramente: non è questo che i tifosi vogliono, non è questo che i media vorrebbero votare, e non è questo che dovrebbe rappresentare l'albo d'oro della lega.

La questione, in fondo, è semplice: i grandi vanno riconosciuti per la loro grandezza. Parliamo di giocatori come Jokic, capace di mettere a referto una tripla doppia da 50 punti e di rendere quasi normale ciò che dovrebbe essere eccezionale, o di Luka Doncic, che può tranquillamente infilare 30 punti in un solo tempo di gioco e l'ha già fatto più volte. Questi sono, per definizione, profili da All-NBA, da MVP, da premi di fine stagione: costruire una barriera burocratica che li esclude per una manciata di partite perse per infortunio non è tutela della competizione, è auto-sabotaggio. Pensare che a Jokic venga sostanzialmente tolta la possibilità di lottare per un quarto MVP – traguardo che nella storia è stato raggiunto solo da Wilt Chamberlain, LeBron James, Kareem Abdul-Jabbar, Bill Russell e Michael Jordan – per una regola scritta per combattere il load management, ha qualcosa di quasi “criminale” sul piano sportivo. Lo stesso discorso vale per Wembanyama e per chi verrà dopo di lui: la lega non potrà cambiare le scelte già prese, ma ha il dovere di correggere la rotta già dalla prossima off-season. Perché una cosa è certa: nessuno, tra tifosi, addetti ai lavori e osservatori minimamente razionali, vuole un sistema di premi che ignora i migliori per colpa del calendario.