He got games: davvero c’è sempre un avversario capace di fare meglio di te?

He got games: davvero c’è sempre un avversario capace di fare meglio di te?

(di FRANCESCO RIVANO). Voglio partire in questo articolo da una esperienza personale per esprimere un concetto che nello sport, come nella vita, è fondamentale per comprendere i propri limiti e capire fin dove si può arrivare. Il mio sport di riferimento, quello che ho praticato per circa 30 anni, è stato il calcio. Sono partito dalle basi, dalle fondamenta e grazie agli allenamenti e agli insegnamenti dei miei allenatori sono arrivato a “divertirmi” giocando a calcio. Non ho mai avuto la pretesa di poter sfondare, è vero da bambino il mio sogno era quello di diventare un professionista, ma un certo punto, durante la mia crescita sportiva e umana, mi sono reso conto dei miei limiti, di cosa potevo dare allo sport e di quello che lo sport avrebbe potuto dare a me. La stessa cosa mi è capitata una volta appese le scarpette al chiodo. Sono stato investito pure io dal ciclone Padel. Il Padel è uno sport che, con  un minimo di confidenza con una racchetta in mano e la capacità di comprendere le traiettorie della palla utilizzando le sponde, si impara piuttosto in fretta. Diciamo che arrivare al minimo sindacale per stare in campo in maniera onorevole è semplice, ciò che diventa difficile è fare gli step necessari per passare da praticante decente a giocatore bravo. Cosa è che mi ha fatto rendere conto del fatto che sia il Calcio che il Padel fossero per me null’altro che una valvola di sfogo attraverso la quale smaltire le tossine di una settimana di studi prima e di lavoro poi?

La risposta è semplice, dura da digerire quando ti viene sbattuta in faccia, ma che una volta compresa ti fa stare in pace con te stesso e capire che oltre un certo livello non si può andare. Quindi, a meno che a leggere questo articolo non ci siano Leo Messi o Ale Galan, sarà capitato a tutti voi che avete praticato sport di incontrare quegli avversari oltre il quale non si poteva andare, quegli sfidanti che, seppur preparandovi fisicamente, emotivamente, mentalmente  e tecnicamente, non riuscivate mai a battere perché maneggiavano il gioco meglio di voi, perché sapevano adattarsi meglio di voi alle situazioni di difficoltà, perché, più di voi avevano nelle proprie mani il senso del gioco ponendosi un passo avanti senza farsi mai raggiungere. È da questo concetto di “possesso del gioco” che nel 1998, dalla mente geniale di Spike Lee, nasce un film che ha il basket come protagonista, un basket maneggiato con cura amorevole da un ragazzo che di nome fa Jesus (in onore del “Black Jesus” Earl “The Pearl” Monroe) e che tra le strade di Coney Island dimostra, tra le problematiche di una vita difficoltosa, di possedere le chiavi del gioco per essere il migliore e riuscire a emergere. Come si dice dall’altra parte dell’oceano? He got Game.

A metà degli anni ’70, a circa un paio di centinaia di kilometri da Sacramento, nella base militare di Castle Air Force, vede la luce Walter Ray, figlio di Walter Senior e Flora. L’appartenenza di Walter Senior alle forze armate statunitensi costringe la famiglia Allen a spostarsi in giro per il mondo fino a che non pone fissa dimora a Dalzell nel South Carolina. Il piccolo Ray non si trova benissimo nei rapporti con i nuovi compagni di scuola; la formazione di matrice militare imposta dal padre e l’accento “strano” nato dal mix di lingue imparate in giro per il mondo, lo rendono un alieno rispetto ai coetanei e il carattere introverso non aiuta. È il basket a redimere Ray e farlo apparire ai suoi coetanei non più come “lo straniero” ma come uno di loro. È il basket che lo pone al livello più alto del resto dei ragazzi che lo circondano e l’etica del lavoro acquisita dal padre e l’ambizione di diventare il migliore, gli mettono in mano il gioco del basket di cui diventa custode tra i suoi pari. Ray diventa colui che possiede il gioco. Porta la squadra della sua High School, la Hillcrest, al primo titolo statale e quando arriva il momento del college basket è Connecticut a reclutarlo. Con la maglia degli Huskies Ray dimostra al mondo del basket statunitense di avere il gioco nelle sue mani anche a un livello superiore e di saperlo usare a piacimento e nel 1996, dopo essersi laureato alla UConn si rende eleggibile al Draft NBA. È Minnesota a chiamarlo per far da spalla a Kevin Garnett ma non è ancora il tempo di duettare con The Big Ticket. I Timberwolves vogliono il genio da Coney Island Stephon Marbury e pur di averlo dirottano Ray nel Wisconsin. Ai Bucks Ray incanta: è Reggie Miller dopo Reggie Miller, è Steph Curry prima di Steph Curry e Spike Lee sceglie lui per interpretare Jesus Shuttleworth perché ormai è chiaro: He got Game. Indimenticabile in maglia Bucks sarà la serie di finale di Conference contro i 76ers di Allen Iverson nel 2001. Sette lunghe partite nelle quali The Answer risponderà a una domanda chiave per Ray: “sono ancora pronto per vincere un anello?” E la risposta del numero 3 dei Sixers è perentoria: “NO”.

È il 2003 quando Ray, dopo aver fatto registrare diversi record per la franchigia di Milwaukee, decide di cambiare aria e ad accoglierlo c’è la culla del talento Made in USA di fine millennio: Seattle. In maglia Supersonics Ray riporta all’ombra dello Space Needle quella carica di adrenalina che manca dai tempi del binomio Payton-Kemp e inizia rapidamente a scalare la vetta dei migliori tiratori da tre. La meccanica di tiro di Ray è un clinic da mostrare a chiunque ambisca a prendere una palla in mano e l’ossessione con cui cura ogni movimento è figlia della educazione militare voluta da Walter Senior. Già solo il riscaldamento pre partita vale il prezzo del biglietto: un’escursione minuziosa su ogni singolo centimetro quadrato del parquet che va da sotto il canestro all’arco dei tre punti in una serie di movimenti fluidi e sinuosi che incanta chi lo osserva. E il lavoro di piedi non è da meno. Nel 2007 Danny Ainge orchestra una delle sessioni di mercato più azzeccate della storia del gioco del Basket e Ray, ora si, è pronto per duettare con Kevin Garnett, ma soprattutto è pronto a vincere. E lo fa non in un posto non a caso, ma sul parquet incrociato più vincente della storia del gioco. Ray diventa un Celtics e con Paul Pierce e KG riporta nel Massachusetts un titolo che mancava dagli ’80 e ne sfiora un secondo nel 2010 arrendendosi solo a chi è più ossessionato di lui dal gioco: Kobe. L’avventura in quel di Boston dura fino al 2012, la tappa successiva è Miami, alla corte del Re. Gli Heat della seconda decade degli anni 2000 sono una squadra di All Star che si presenta alle Finals ininterrottamente per 4 anni di fila. Dopo aver perso le Finals contro Dirk Nowitzki nel 2011 e vinto quelle del 2012 contro i Thunder di OKC aggiungono al loro pacchetto base, composto da LeBron James, Dwayne Wade e Chris Bosh, un tassello che si rivelerà fondamentale a 5.2 secondi dal termine di gara 6 delle Finals del 2013 contro i redivivi Spurs. Gli Heat, sotto di 3 punti si affidano a LeBron James che sbaglia il tiro dalla lunga distanza: sembra finita ma Manu Ginobili si dimentica di tagliar fuori Chris Bosh che abbranca uno dei rimbalzi offensivi più importanti della sua carriera e serve Ray sul lato destro del campo. L’American Airlines Center è con il fiato sospeso, gli Spurs sono 3 a 2 avanti nella serie e il cordone giallo che delimita il campo è già pronto a contenere un’eventuale discesa in campo di tifosi texani. Tutto fa sembrare che il titolo sia destinato ad andare all’ombra dell’Alamo, ma gli Spurs non hanno fatto i conti con quell’avversario di cui vi parlavo a inizio articolo, quell’avversario che sa uscire da ogni situazione di difficoltà portando sempre il risultato dalla sua parte, quell’avversario che possiede le chiavi del gioco per essere il migliore. Quello di Ray è un movimento ammagliante, fatto di grazia, precisione chirurgica, fluidità e sicurezza nei propri mezzi. In pochi attimi balla sul parquet portando i piedi ad accarezzare il campo pochi centimetri al di fuori della linea da tre punti. E dall’arco mostra ancora una volta il perché, in quella stessa stagione sportiva, è diventato il miglior tiratore da 3 di sempre. Basta il rumore della palla che accarezza la retina a rendere inutile per gli Spurs i successivi supplementari e la conseguente Gara 7. Ray è ancora campione NBA e quello sarà il suo ultimo alloro di una carriera che si conclude nel 2014 in seguito alla rivincita di Gregg Popovich e compagnia.

Proverà a rientrare nel 2016 ma Ray sa in cuor suo di aver dato tutto quello che aveva, di aver posseduto le chiavi del gioco per un tempo abbastanza lungo e che non sarebbe più stato quell’avversario capace di uscire fuori da ogni situazione, anche difficoltosa, da vincente. E qui ritorniamo all’inizio, al concetto di partenza, alla capacità di comprendere che, a un certo punto, certi limiti non si possono più superare. Era presente a New York quando Steph Curry lo ha superato nella classifica dei migliori tiratori da 3, ha accolto quella tripla con un sorriso e stretto il suo successore in un forte abbraccio perché Ray got Game e da custode del gioco sapeva alla perfezione che c’è sempre un avversario capace di fare meglio di te.

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.