LBA - Carlo Recalcati ripercorre una intensa vita di pallacanestro

Fonte: Lucia Montanari
LBA - Carlo Recalcati ripercorre una intensa vita di pallacanestro

Nel quarto appuntamento con la rubrica “Storie a Spicchi” abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con uno dei migliori allenatori italiani di sempre, Carlo “Charlie” Recalcati. Coach Recalcati ha risposto alle nostre domande, ripercorrendo i tratti più salienti e significativi della sua carriera, della sua vita e parlando tanto anche di presente e futuro. 

Senza dubbio sei uno dei più grandi allenatori italiani di sempre e sei stato anche un grande giocatore. In tanti danno per scontato il passaggio da un ruolo ad un altro, ma com’è realmente? Quali sono i pro e i contro di aver vissuto entrambi i lati della medaglia?

Sinceramente, per esperienza personale e convinzione, ci sono solo dei pro e non ci sono contro. Come in tutti i momenti della vita, la cosa importante è che ognuno interpreti il proprio ruolo, nel momento in cui lo ha, essendo sé stesso e non cercando di copiare gli allenatori che in quel momento vanno di moda, in quanto questo sarebbe l’errore più grande. Ogni allenatore deve avere una sua personalità, proporsi alla squadra e ai giocatori per com’è fatto ed essere sé stesso. Soprattutto, chi è stato giocatore sa quanto è sensibile uno spogliatoio e come esso capisce se un allenatore in quel momento sta parlando con frasi preconfezionate, usate dall’allenatore che in quel momento va per la maggiore: se i giocatori percepiscono che non c’è niente di vero, ma è tutto copiato, l’autorevolezza dell’allenatore scompare. Alla fine, l’allenatore, più che esercitare la propria autorità che gli viene data dalla società o da un contratto, deve essere capace di essere autorevole. Credo proprio, quindi, che il pro nel passare da giocatore ad allenatore sia questa esperienza che il giocatore ha maturato nello spogliatoio nel capire gli umori interni tra i giocatori stessi, ma anche tra giocatore e allenatori avuti, quindi il sapere che cosa un giocatore si aspetta da un allenatore, ovvero innanzitutto che l’allenatore sia sé stesso, con i suoi pregi e difetti.

Un altro pro del giocatore che diventa allenatore è che esso si è confrontato durante la sua carriera con molti allenatori e quindi con diverse metodologie, avendo la possibilità di fare proprie quelle più adatte al suo modo di vivere la pallacanestro e al suo modo di essere. Questo significa mettere a frutto l’esperienza di altri e quindi essere un passo avanti nel non commettere magari errori che, chi non ha mai giocato, potrebbe fare all’inizio della sua carriera.

A proposito di medaglie, le ultime della nazionale italiana risalgono alla tua Italia. Che cosa credi sia successo, da quel momento ad oggi, al movimento azzurro, che non riesce a decollare nuovamente? Qual è la ricetta per rilanciarlo secondo te?

Qui dobbiamo veramente andare indietro nel tempo. La medaglia alle Olimpiadi è rimasta, poi ci fu una medaglia ai giochi del Mediterraneo, però è chiaro che nella memoria di tutti c’è l’argento olimpico di Atene. L’errore che venne fatto allora fu quello di non recepire una situazione che già era in divenire, ovvero quella che noi avevamo una nazionale che aveva molti giocatori a fine carriera e che c’era poco ricambio all’orizzonte. Io dissi queste cose all’indomani della conquista dell’argento come monito, dicendo che se non avessimo rimediato a questa situazione tornando a formare dei giocatori di livello internazionale, non avremmo rivinto per un po’ di anni. Il problema del nostro movimento, allora e ancora adesso, è che noi abbiamo sicuramente dei giocatori di livello internazionale, però ne abbiamo troppo pochi rispetto alle nazionali che vanno per la maggiore. Abbiamo sempre difficoltà a formare una nazionale fortemente competitiva: ci sono sicuramente giocatori di livello internazionale, però completiamo sempre i vari roster con giocatori con poca esperienza e valore internazionale. Il mio pensiero è che, rispetto a tutte le altre nazioni, noi abbiamo molti meno giocatori di livello alto. Questa è una cosa che io dissi allora, ma essa venne presa come una cosa detta per esaltare ancora di più i successi della mia nazionale.

È chiaro che una ricetta è difficile da avere, non c’è solamente un modo per cercare di porre rimedio alla pochezza di giocatori di livello internazionale. Purtroppo, in questi anni, ci siamo riempiti la bocca con i nostri bravissimi giocatori che sono andati a giocare in NBA, dimenticandoci di fare una valutazione di carattere generale di quella che è l’NBA e di quanti giocatori le altre nazionali avevano nella Lega, quindi a fronte dei nostri ¾, vi erano nazionali che ne avevano molti di più. Purtroppo, siamo un movimento che si è stabilizzato, dimenticandoci del fatto che proprio noi, per un certo periodo, siamo stati i primi ad essere innovativi ed un esempio per gli altri sport a livello di innovazioni. Ad esempio, il basket in Italia è stato il primo ad assimilare dagli Stati Uniti il format dei playoff; inizialmente vi furono delle critiche, ma alla fine è stata un’idea che ha fatto fare un grande salto di qualità al nostro movimento e al nostro campionato, in quanto in quel momento sono arrivati non solo nuovi spettatori, ma anche nuovi sponsor. Questo per dire che noi dobbiamo cercare di non sederci su quello che è stato fatto, perché nel momento in cui ti siedi, regredisci, non rimani stabile, perché gli altri allo stesso momento vanno avanti. Noi dobbiamo cercare sempre di trovare nuove situazioni che possano permetterci di migliorarci.

L’errore che noi abbiamo fatto e che stiamo facendo è che pensiamo che sia sufficiente l’attività giovanile per arrivare alla completa maturazione di un giocatore. Forse così succede negli altri Paesi, ma non nella nostra pallacanestro. Noi abbiamo ragazzi che a 14 anni hanno grossi problemi motori e di obesità, quindi non è sufficiente l’attività che va dai 14 ai 18 anni perché questi possano migliorarsi tecnicamente e fisicamente, ma abbiamo bisogno di fare in modo che questi ragazzi, finita l’attività giovanile abbiano la possibilità concreta di completare la loro formazione, non solamente continuando ad allenarsi, ma anche e soprattutto avendo la possibilità di confrontarsi e giocare. Avevamo pensato di risolvere questa cosa obbligando le società di Serie A e LegaDue a mettere a referto un certo numero di giocatori italiani e alle società dei campionati minori di mettere a referto un certo numero di giocatori under; il problema è che mettere a referto un numero fisso di giocatori, non significa che poi chi va a referto viene utilizzato e gioca, quindi non si risolve il problema del farli giocare. A distanza di 20 anni noi non abbiamo fatto niente, mentre a distanza di 5/6 anni dalla medaglia d’argento avevamo già preso coscienza del fatto che l’obbligo a referto non produceva risultati per la formazione dei nostri giocatori e avremmo dovuto già allora intervenire mettendo da parte l’obbligo e trovando un sistema d’incentivazione affinché le società professionistiche e non fossero incentivate a far giocare i giocatori italiani e quelli giovani, ma questo non è stato fatto. Ad un certo punto c’è stata l’introduzione dell’incentivazione economica per chi fa giocare per il più alto numero di minuti gli italiani, ma non è sufficiente perché noi abbiamo bisogno di incentivare tutto il movimento e tutte le squadre.

La mia idea, che ho espresso anche in Federazione, è quella di togliere l’obbligo a referto e di parlare di incentivazione nell’utilizzo di giocatori italiani, premiando ulteriormente le società che producono giocatori, facendo giocare i giovani del proprio settore giovanile. Chiaro, non è detto che questa sia la soluzione a tutti i problemi, però quantomeno potrebbe essere un tentativo, invece noi siamo qui fermi e continuiamo a lamentarci, senza però provare a cercare delle soluzioni.

Hai vissuto in diversi momenti cestistici con il basket che, soprattutto in questi ultimi anni, è profondamente cambiato proprio a livello di gioco. Quali sono le differenze che tu vedi rispetto al passato? Cosa ti piace di più e cosa di meno?

Parliamo veramente di due sport diversi. Quando io ho iniziato forse non si chiamava neanche pallacanestro, ma palla al cesto. C’è stato veramente un cambiamento radicale del gioco. All’inizio era uno sport dove ogni contatto veniva penalizzato e sanzionato, quindi era uno sport di non-contatti, mentre ora è diventato uno sport di contatti ed è meglio così. Io non sono uno di quelli che dice “ah ma ai miei tempi era tutta un’altra cosa…”, perché credo che bisogna vivere nel momento in cui si fanno le valutazioni. Probabilmente allora andava bene così perché anche la consistenza degli atleti era differente, poi successivamente è anche cresciuta la cura nella preparazione fisica e le generazioni sono migliorate dal punto di vista atletico e fisico. Le generazioni come la mia, che sono uscite dal dopoguerra, avevano anche problemi diversi perché dal punto di vista fisico non abbiamo avuto la crescita che hanno avuto le generazioni successive che hanno vissuto in un momento in cui è iniziato il benessere. L’evoluzione delle possibilità atletiche e fisiche hanno fatto sì che cambiasse anche il modo di interpretare la pallacanestro.  Dal mio punto di vista, l’ideale sarebbe se la tecnica e il talento che allora si sviluppavano, si potessero sviluppare ancora oggi, in abbinamento alle qualità atletiche e fisiche che i giocatori di oggi hanno: se fosse così, probabilmente avremmo una pallacanestro migliore. Come detto, però, bisogna adattarsi ai tempi. Poi, chiaramente, vi è stata l’introduzione del tiro da tre punti che ha completamente cambiato un’altra volta il modo di giocare. Se vogliamo parlare di cosa sarebbe ideale, sicuramente lo sarebbe l’equilibrio tra la tecnica e la prestanza fisica e atletica e quello tra il gioco interno ed esterno all’area.

Se c’è una cosa che tanti tuoi giocatori hanno esaltato di te, è la tua capacità di capire l’uomo. Charlie Recalcati come interpreta il ruolo dell’allenatore? Secondo te è più importante il fattore e l’apporto tecnico o ha preponderanza quello umano?

Io sono sempre stato un giocatore molto attento a quello che mi capitava intorno, quindi per me era importante capire cosa voleva l’allenatore da me e dalla squadra, perché avevo realizzato che se io capivo lo scopo di un esercizio o di una metodologia mi applicavo meglio, conoscendone il perché. Io ho avuto la fortuna, nella mia carriera, di avere tre allenatori molto diversi tra di loro.

Il mio allenatore in Serie A è stato Gianni Corsolini, che dava una grande importante alla tecnica, ma soprattutto alla persona e quindi alla considerazione che lui aveva dei singoli giocatori non solo per ciò che loro facevano in campo, ma per i valori che loro potevano avere e quindi cercava di trasferirci importanti valori umani. Lui diceva che prima di essere un bravo giocatore, era necessario essere delle brave persone.

Dopo ho avuto Arnaldo Taurisano, che oltretutto è stato colui che mi ha insegnato quando ero ragazzino e poi l’ho ritrovato in Serie A. È stato, dal punto di vista tecnico molto importante perché con lui ogni allenamento era un clinic e soprattutto aveva la capacità di farti capire il perché dovevi fare una cosa e il perché dovevi fare un certo esercizio.

Infine, ho avuto un personaggio di un’ingombranza pazzesca, un vero genio, tant’è vero che quando ha smesso di fare l’allenatore, è diventato segretario generale FIBA, ovvero Boris Stanković. Lui aveva un visione della pallacanestro a 360°, quindi non la vedeva solamente sotto l’aspetto del giocatore o dell’allenatore, ma la vedeva tenendo conto di tutto, delle regole e dei rapporti. Lui considerava sempre tutte le componenti, che non sono solo i giocatori o gli allenatori, ma anche i dirigenti, i proprietari, i giornalisti, il pubblico e ognuno doveva avere, da parte nostra, una considerazione. Lui ci diceva che noi potevamo essere bravi a far canestro quanto volevamo, ma se non ci fosse stato il fisioterapista, il magazziniere, il cronista, l’arbitro, noi saremmo stati qualcosa dentro un mondo che non sarebbe potuto esistere senza altre componenti. Queste cose qua me le sono fatte mie e ho cercato, nel mio approccio verso i giocatori, di avere una visione di questo tipo, quindi cercando di trasferire loro e fargli capire che il nostro mondo è molto bello, però alla fine non siamo noi al centro dell’universo, ma siamo una parte di esso, quindi è necessario avere una visione ampia delle problematiche che ci sono, non solo nel nostro lavoro, ma nel mondo.

Fondamentalmente, io ho sempre cercato, nel corso degli anni, crescendo e cambiando tantissimo, di essere me stesso e di non cambiare mai il mio modo di essere. Questa credo sia la cosa che ha sempre catturato l’attenzione e il rispetto dei giocatori.

Hai vinto tanto in Italia, hai vinto con l’Italia, ma non sei mai andato all’estero. Come mai?

Non è stata una scelta, sono state più che altro situazioni. Ci sono stati due momenti in cui io potevo andare all’estero, uno da giocatore e uno da allenatore.

Il primo, quello da giocatore, fu nel 1972 quando venni escluso dalla nazionale e mi arrivò un’offerta dei New York Nets che mi chiesero di passare al professionismo. Io non l’accettai perché il mio obiettivo era quello, dopo l’esclusione dalla nazionale, di riconquistare la maglia azzurra per le Olimpiadi del 1976; in quel periodo, i giocatori professionisti non potevano giocare le Olimpiadi ed esisteva una regola della federazione italiana che qualunque giocatore provenisse da campionati esteri, pur essendo in possesso di passaporto italiano, veniva considerato proveniente da federazione straniera e veniva considerato come straniero. Il pensiero di andare a New York è durato il tempo di fare tutte queste considerazioni, poi ho rifiutato l’offerta perché per me la cosa più importante era la conquista di un posto in nazionale.

La seconda volta invece, da allenatore, fu dopo lo scudetto di Varese nel 1999: io avevo già un accordo con Malaga ed eravamo ai dettagli, poi durante la trattativa è intervenuta la Fortitudo e quindi la possibilità di rivincere il campionato appena vinto con Varese e la scelta è stata automatica di andare in Fortitudo, piuttosto che a Malaga.

A livello di nazionale, mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza in Cina. Ebbi dei contatti, però loro in quel periodo volevano passare ad una gestione tecnica cinese e cercavano semplicemente degli allenatori stranieri che potessero fare da tutor all’allenatore cinese, ma la cosa non mi piacque.

Invece, oggi, sempre più giovani italiani scelgono di andare all’estero, in particolare negli USA, per continuare il proprio percorso di formazione cestistica. Qual è il tuo pensiero sulla scelta di andare al college? Che segnale da questa cosa ad un movimento?

In parte potrebbe essere un segnale d’allarme per il movimento, però bisogna anche essere aperti e pensare che non vi è solo una regola fissa su come devono essere fatte le cose e quindi si possono ottenere comunque risultati battendo strade diverse. Considerando la globalizzazione e i tempi, penso sia giusto anche scegliere e fare esperienza di questo tipo, dove magari si ha la possibilità di crescere meglio in un contesto diverso. Sarà il tempo che poi dirà se questo darà dei frutti o meno. Abbiamo avuto dei giocatori che sono stati nei college ma non hanno avuto una crescita, a fronte però di altri che invece hanno avuto un ottimo percorso dopo il college, come ad esempio Daniel Hackett. Io penso che vada bene tutto, si tratta di fare delle scelte e, come in tutte le cose, credo che la prima cosa da non fare sia fare una determinata scelta per moda. Deve essere una scelta ponderata e valutata sulla propria situazione, sul proprio modo di essere e sulle proprie possibilità di avere sbocchi in Italia, piuttosto che all’estero. La cosa importante è trovare la situazione ideale, che sia in Italia, Stati Uniti o altrove, che sia la migliore per la propria formazione.

Hai conosciuto e visto tante generazioni di campioni e allenatori. Quali sono secondo te i protagonisti che, in un modo o nell’altro, hanno lasciato un segno indelebile nella pallacanestro?

Questa è una domanda veramente complicata, ma ho cercato di segnarmi qualche figura che per me è stata davvero iconica.

Per quanto riguarda gli allenatori, te ne cito due. Giancarlo Primo, un allenatore con cui ho avuto sicuramente dei problemi, in quanto è stato quello che mi ha escluso dalle nazionali, però devo dire che lui ha insegnato a tutta Europa e non solamente all’Italia, che la pallacanestro non era solo attacco, ma è anche difesa. Quando lui iniziò ad allenare la nazionale, l’Italia era l’unica nazionale in tutta Europa che aveva dei concetti difensivi di squadra. Lui secondo me ha cambiato la pallacanestro europea. Un altro allenatore che mi sono appuntato è Phil Jackson, perché è stato quello che ha mostrato a tutti cosa voleva dire avere uno staff e credere nel lavoro di squadra, non solo a livello di giocatori, ma anche a livello di staff tecnico. Lui ha avuto un assistente come Tex Winter, che è stato l’allenatore che ha insegnato a tutto il mondo il triangolo offensivo, ed ha avuto la capacità di inserire nel proprio staff un collaboratore che potesse insegnare a lui come essere un allenatore migliore. Poi, ha dato importanza non solo all’aspetto tecnico e fisico dell’atleta, ma ha capito che era fondamentale lavorare anche sulla testa dei giocatori, inserendo nel suo staff anche dei collaboratori che facevano questo tipo di lavoro. A mio modo di vedere, ha cambiato sicuramente la concezione e la percezione verso questo punto di vista.

Per quanto riguarda i giocatori, ti faccio un’altra lista. Innanzitutto, Divac e Nowitzki, che sono stati, a mio avviso, i giocatori europei che per primi hanno mostrato all’NBA quanto i giocatori europei fossero competitivi. Ci sono stati sicuramente altri giocatori europei in NBA prima di loro, ma nessuno che abbia inciso come loro. Mi sono poi segnato Ćosić, che fu il primo giocatore di statura, che non fosse esclusivamente d’area, ma uno che sapeva giocare in tutte le posizioni del campo ed era un lungo di 2,11 metri che diventava di fatto il perno della squadra. È stato il primo lungo moderno. Infine, Andrea Meneghin, che nel 1999 era stato votato miglior giocatore europeo, e che, solo per sfortuna a livello di problematiche fisiche, non ha continuato ad essere il miglior giocatore europeo.

Prima da giocatore e poi da allenatore, ti sei ritrovato a girare ovunque in Italia, a dimostrazione che non sempre la carriera professionistica è così facile come tanti pensano. Qual è il “prezzo” da pagare per avere una grande carriera? Qual è il futuro di Recalcati nel basket? Come e dove le piacerebbe portare ancora un contributo vero e fattivo?

Allora, innanzitutto, io appartengo alla categoria degli ex giocatori che hanno avuto la fortuna, a differenza di quello che succede oggi, di giocare per 17 anni nella stessa squadra. Oggi questo non succede più, mentre una volta succedeva. Sono cambiati i tempi, dopo la sentenza Bosman i giocatori sono diventati liberi. Oggi, quando uno inizia la carriera di giocatore o allenatore, deve mettersi da subito in testa che il cambiamento è all’ordine del giorno, quindi se vuole fare questo mestiere deve essere pronto a spostarsi in tutta Italia o in tutto il mondo. Secondo me, è solo un fatto di formazione mentale e chi entra nel mondo dello sport e della pallacanestro cresce con questa convinzione e non si immagine neanche quello che succedeva prima. Se un giocatore si inizia a mettersi dei limiti a livello geografico, inizia ad essere problematico, anche perché la carriera di un giocatore o di un allenatore è fatta di occasioni.

Più che futuro, parlerei di presente. Io l’ho fatto sempre da giocatore, poi da quando ho incontrato Stanković l’ho fatto anche da allenatore e da CT: non mi è mai piaciuto concentrarmi solo sull’aspetto tecnico del gioco, ma volevo anche capire cosa succedeva intorno a me e capire l’implicazione delle regola che muovono uno sport, anche dal punto di vista politico. Sto molto bene, innanzitutto a livello di salute, ma sto bene nell’equilibrio che ho sempre avuto e che continuo ad avere anche adesso che non sono direttamente impegnato. Mi piace tenermi aggiornato e continuo a vivere la realtà del basket nel presente, con il piacere di poter parlare, ogni tanto, delle mie idee e delle esperienze maturate e di cosa sarebbe necessario fare per il nostro movimento, senza avere la presunzione o voler avere un ruolo, piuttosto che dei contratti, ma per poter essere utile con le idee a chi poi deve decidere cosa fare della nostra pallacanestro. Io continuo ad avere un ruolo attivo nella pallacanestro, perché in ogni occasione che mi capita, esterno il mio pensiero e le mie idee, perché è una cosa che mi piace fare. Non sono mai andato a cercare io delle cariche; anche in questi giorni si parla di me come prossimo presidente della LegaBasket: io sono contento che si possa fare il mio nome, perché significa che qualcuno mi reputa adatto in una situazione del genere, però non sono sicuramente io che vado a propormi. Se ritengono che possa essere utile, mi verranno a cercare.

Si ringrazia per l’enorme disponibilità e gentilezza coach Carlo Recalcati.

di Lucia Montanari