Nicola Brienza e Cantù: costruire solidità dentro la passione
A Cantù la passione non è qualcosa che arriva all’improvviso. È sempre lì. «Ormai tutte le piazze sono diventate estremamente esigenti, sempre alla ricerca di risultati», dice Nicola Brienza. «Cantù, a questa esigenza generalizzata, aggiunge passione ed una storia di altissimo livello». È questo il punto di partenza, il contesto inevitabile.
Dopo la scorsa stagione, però, il modo di stare dentro questa passione è cambiato. «L’anno scorso avevamo creato noi stessi il termine aspettativa», racconta. «Da lì ci siamo costruiti una missione. E l’ambiente ha sviluppato una corazza abbastanza rigida e resistente». Non per abbassare l’asticella, ma per rendere il percorso sostenibile.
Oggi Brienza non parla di squadra “arrivata”. Anzi. «Non siamo nell’ultimo step. Non abbiamo ancora un’identità a prova di tutto». Il parametro, per lui, resta chiaro: «La solidità di una squadra si misura nelle partite in trasferta». Non solo nei risultati. «Essere solidi non significa vincere sempre, ma avere la forza mentale, tecnica e tattica di essere competitivi per 40 minuti contro tutti».
Anche quando si perde. «Può capitare di essere competitivi per tutta la partita e poi perdere perché giochi contro campioni o squadre blasonate». È lì che si capisce il livello raggiunto. «Quando arrivi a quel tipo di preparazione, allora puoi dire di aver costruito davvero la tua identità».
Le sconfitte recenti non vengono rimosse. Vengono lette. «A Varese e contro la Virtus abbiamo perso, ma al netto del risultato ci hanno lasciato feedback positivi». Brienza insiste sul processo. «Abbiamo messo dei paletti. Ora, speriamo di fare un ulteriore step in avanti».
Se c’è un marchio di fabbrica che vorrebbe vedere emergere con chiarezza, Brienza non ha dubbi. «L’aspetto difensivo». È una costante della sua carriera. «Le mie squadre, Cantù l’anno scorso e Pistoia prima, sono sempre partite da lì». Non per ideologia, ma per lettura del presente. «Oggi la qualità offensiva è aumentata tantissimo. Lo dicono i numeri, lo dice l’Eurolega».
Difendere, però, non è più una questione aritmetica. «Parametrare la solidità difensiva solo sui punti subiti è riduttivo». Il lavoro vero è altrove. «Dobbiamo crescere nella gestione dei possessi, nella capacità di leggere la partita, nel minimizzare gli errori difensivi che possiamo controllare».
Brienza è realistico. «Poi è chiaro che il talento avversario ti può punire». Ci sono giocate contro cui si può fare poco. «Se uno ti tira tre volte da nove metri, puoi sperare solo che abbia una brutta giornata». Ma questo non cambia l’approccio. «Se riusciamo a fare uno step difensivo, quella diventa la colonna di cemento armato della nostra identità».
In attacco il discorso cambia. «La qualità dei giocatori, oggi, spesso prende il sopravvento sull’aspetto tecnico-tattico». Il ruolo dell’allenatore è diverso. «Non devi sopprimere il talento, ma indirizzarlo». Mettere i giocatori nelle condizioni giuste. «Responsabilizzarli».
Il tema dei dati entra qui in modo naturale. Brienza li conosce bene. «Oggi siamo invasi dai dati, da un quantitativo di informazioni incredibile». E ricorda l’inizio. «Quindici anni fa passavamo dalle VHS ai primi software. Oggi è un altro mondo».
Ma c’è un limite da non superare. «I dati devono farti riflettere, non decidere al posto tuo». Il feeling resta centrale. «Non mi piace l’idea che un algoritmo dica quando fare un cambio». Perché il gioco è altro. «Ogni azione dura pochi secondi, ogni passaggio richiede una lettura immediata». E quella lettura non può essere programmata. «Se perdi l’istintività, perdi l’essenza del basket».
Il percorso personale di Brienza segue la stessa logica. «Sono figlio di Sacripanti, Dalmonte e Trinchieri». All’inizio c’era molto di ciò che aveva visto fare a loro. «Poi il gioco cambia». E impone un adattamento continuo. «Se non ti evolvi, in un anno o un anno e mezzo sei superato».
Guardando la classifica, non c’è sorpresa. «Siamo più o meno dove pensavamo di essere». Il campionato ha definito le gerarchie. «Ci sono 6-7 squadre con un livello oggettivamente più alto». Per tutte le altre, il fattore campo pesa. «In casa abbiamo fatto il nostro dovere».
La scelta estiva è stata precisa. «A parte Moraschini e De Nicolao, abbiamo una squadra con tanti giocatori che non hanno mai giocato in Serie A». È una scelta di prospettiva. «È un gruppo che può crescere molto». Il tempo dirà se è stata quella giusta. «Speriamo che nella seconda parte di stagione arrivino i dividendi del lavoro fatto».
Non c’è fretta nelle parole di Brienza. C’è metodo. «Dobbiamo crescere, migliorare, trovare solidità». Tutto il resto viene dopo.