LBA - Questa rivoluzione della pallacanestro italiana tarda a venire
Se qualcuno, una decina di anni fa, mi avesse detto che mi sarei cimentato a scrivere di pallacanestro avrei sorriso e scosso la testa: non lo avevo mai fatto e la passione era nata da spettatore molto tempo fa, negli anni in cui Siena si affacciava alla ribalta nazionale.
Non so se sia indicato per un autore cominciare un pezzo parlando di se stesso, ma a me serve per ricordare (e ricordare ai nostri lettori) che una delle prime cose che mi vennero raccontate era la crisi in cui versava la pallacanestro italiana - specie quella di vertice - e l'improrogabile necessità di una riforma, da fare in fretta.
Nel febbraio/marzo 2020 la rivoluzione dall'alto (credo sia una tesi maoista che va bene a tutte le latitudini) dei tre saggi della LBA aveva indicato una strada e un nuovo condottiero, Umberto Gandini, che avrebbe guidato Legabasket a nuovi e fulgidi destini.
Nel contempo il presidente della FIP cominciava a tessere la ragnatela per la sua rielezione, utilizzando pure lui dei concetti di rivoluzione e di riforma, con un programma di rinnovamento che si spera di vedere all'opera.
In più l'avanzare dell'epidemia metteva a nudo i problemi strutturali ed economici di tante società sportive (non solo nel basket). Un segnale di debolezza del sistema che avrebbe davvero potuto valere una piccola rivoluzione.
Il prossimo mese sarà passato un anno da allora e, come tutti possono notare, siamo punto e capo ancora una volta.
Segnali che lamentano l'immobilismo di Gandini arrivano da molte parti, compresa la stampa cartacea.
In verità, la pandemia è servita soltanto a restringere l'area dell'informazione, creando dei monopoli con l'esclusione di quasi tutti i giornalisti e i fotografi dalle partite e dagli allenamenti, con la riduzione da parte di molti club dell'attività degli uffici stampa (esclusa la propaganda degli articoli sugli sponsor, ovviamente), con una operazione che teoricamente dovrebbe aumentare la platea degli appassionati alla pallacanestro.
E si ritorna a parlare del blocco delle retrocessioni. Una strada che il volley ha già percorso, e sembra con soddisfazione.
Noi riteniamo che non possa essere un cardine per una vera ripartenza, ci vuole ben altro. E' un falso problema, è un provvedimento che, preso da solo, servirebbe soltanto a salvare la poltrona a qualche dirigente di società spregiudicato o vittima di malefatte passate.
In più, quello che alcuni già pensano ma non dicono riguarda la serie A2. Siamo sicuri che a giugno i vincitori di quel campionato non rifacciano bene i conti e come nella scorsa tarda primavera decidano di non accogliere l'invito a salire in serie A?
Perché i costi certamente aumenteranno, mentre non è sicuramente ipotizzabile che l'uscita dalla pandemia avverrà in estate e che il pubblico potrà tornare copioso nei palazzetti.
La disputa delle Final Eight a Milano sarà certamente l'occasione per un rendez-vous tra i presidenti dei club e Gandini. L'occasione per una vera riforma che presenti solidità e strutture efficienti, insomma un vero standard codificato che dia quattro mesi alle società per mettersi in condizione di schierarsi ai nastri di partenza della stagione 2021-22.
Non quelle fumose assicurazioni verbali che hanno reso possibile un altro obbrobrio come l'iscrizione e il ritiro della Virtus Roma e un campionato a quindici squadre che si era giurato non sarebbe accaduto mai più.
Dalla chiarezza dei requisiti nascerà la scrematura che coinvolgerà le attuali partecipanti e le promosse della A2. Non ci interessa se il prossimo sarà un campionato a 14, 16, 18 o 20 squadre. Ci interessa che tutte le società che si iscriveranno saranno in grado di far fronte agli impegni sportivi ed economici.
Perché solo in questo caso potranno operare per garantire uno spettacolo di alto livello con la capacità di imporsi sul mercato e di essere attrattive, singolarmente e come sistema.