“Io credo nel noi”: come Steve Nash rivoltò la NBA con i Suns di D'Antoni
(di FRANCESCO RIVANO). Non so a voi, ma personalmente mi capita piuttosto spesso di associare un determinato momento della vita quotidiana ad un ricordo legato ad un’esperienza particolare, sia stata essa di natura lavorativa, sentimentale, sportiva o di qualsiasi altra specie. Una connessione immediata che mi riporta laddove quel determinato momento dell’attualità mi ricorda di essere stato, fosse solo anche su un divano davanti ad una TV. E questo è quanto mi è accaduto qualche tempo fa, comodamente seduto su una poltroncina di un piccolo teatro ad ascoltare un concerto veramente speciale. Un gruppo di ragazze, provenienti da qualsiasi parte del mondo, con delle capacità canore e artistiche veramente fuori dal comune, in grado di farmi trascorrere tre ore in un battito di ciglia. Uno spettacolo nel quale le musiciste si alternano al microfono ognuna raccontando un qualcosa di se, del suo percorso emotivo e artistico, della sua provenienza e formazione, eseguendo infine delle melodie che coinvolgono e incantano la platea in un tripudio di voci e strumenti in grado di confluire in una perfetta armonia mistica. La serata è piacevole, oltre le previsioni, e scorre limpida e serena fino al momento in cui arriva il turno Alessandra e Adriana. Le due ragazze iniziano a raccontarsi e durante il loro piacevole dialogo Alessandra se ne esce con una frase in grado di aprire nella mia mente la connection di cui sopra: “Quello che desidero per me è quello che desidero per gli altri”. Per carità, il messaggio che vogliono mandare le ragazze è molto più profondo della mia malata perversione cestistica, ma non posso fare a meno di tornare sempre al legno del parquet e al cuoio del pallone abbandonandomi su quella poltroncina ad un viaggio che sembra eterno ma che in realtà dura si e no sette secondi, forse meno.
John, calciatore professionista inglese trapiantato in Canada, accetta di buon grado di affrontare una nuova esperienza lontano dalle latitudini abitudinarie portando con se la moglie, gallese, a Johannesburg, in Sud Africa. Ed è proprio nella terra del Madiba Mandela che Steve annaspa il suo primo respiro. Il fatto di essere nato in Sud Africa da genitori britannici residenti in Canada fornisce a Steve, fin dalla tenera età, un innato bagaglio cognitivo che lo porta ad avere una visione dell’ambiente che lo circonda molto più ampia di quella dei suoi coetanei. Il ritmo pacato e riflessivo del continente nero, la testardaggine e la fierezza del popolo britannico, la concretezza e il liberismo canadese, forgiano un personaggio atipico in grado di districarsi alla grande nelle diverse esperienze scolastiche, sociali e sportive che si trova a dover affrontare. Steve prende in mano la palla a spicchi piuttosto in là negli anni e non la onora mai della esclusività in quanto il ragazzo, ormai di base nella British Columbia, si diverte e anche tanto, con il bastone da Hockey, il retino da Lacrosse e, giusto per non disonorare le origini della famiglia, con il pallone da calcio. Finché di punto in bianco: “Ehi Mamma, ho deciso! Da grande voglio fare il giocatore di basket. Giocherò nella NBA e diventerò una star”.
La High School è quella del St. Michaels di Victoria e Steve non ha nessuno che possa minimamente mettere in difficoltà il suo modo di interpretare il basket. Quasi in tripla doppia di media all’ultimo anno di High School, ma il livello di gioco degli avversari è tale da dissuadere i grandi college dal prendere in reale considerazione le capacità del giovane play canadese. I video che circolano su di lui mostrano come giochi in un contesto povero di agonismo e spunti tecnici, tanto da far bastare una finta a mandare in confusione un’intera difesa. Nessuna delle Università al top del College Basket ritiene credibile il prospetto canadese e Steve si accasa in California a Santa Clara. Il giovanotto canadese è tosto e tenace, vuole raggiungere il suo obiettivo e già nel suo anno da freshman mostra qualità importanti: titolo di MVP del torneo WCC, medaglia d’argento alle Universiadi e percentuali invidiabili attorno al 45% dal campo e da tre alle quali si aggiunge un solidissimo 88% ai liberi: ed è solo l’inizio. La carriera universitaria è un accatastamento di valori tecnici e statistici tali da non far passare inosservato il nativo di Johannesburg ed infatti il riconoscimento del suo valore viene confermato dalla scelta numero 15 al draft del 1996 da parte dei Phoenix Suns. La prima parte della promessa fatta alla madre è rispettata, lo sbarco nella NBA, ora serve tutto il talento e la visionarietà di Steve per raggiungere il secondo step: diventare una star della Lega. A Phoenix non impazziscono per il canadese, giusto per usare un eufemismo, che ha minuti limitati alle spalle di campioni affermati come Kevin Johnson, Sam Cassel prima e Jason Kidd dopo; nel 1998, in virtù anche dell’amicizia maturata a Santa Clara con Donnie Nelson, figlio di coach Don, viene inserito in una trade che lo porta a Dallas in cambio di Martin Muursepp, Bubba Wells, dei diritti su Pat Garrity e di una futura scelta che si concretizzerà in Shawn Marion. Non che le prime stagione a Dallas smentiscano le perplessità dei tifosi dei Suns al momento della scelta al draft del giovane Steve, anzi. L’unica cosa nella quale eccelle è la capacità di creare un legame umano decisamente forte con i compagni di squadra e in particolare con un giovanotto tedesco, ma ai tifosi questo non basta e sino all’avvento del nuovo millennio il numero 13 è piuttosto deludente. Nuovo millennio nuova vita? Decisamente, anche perché i rapporti umani cementati in questi anni iniziano a produrre un’enorme confidenza anche all’interno del parquet e le stagioni dal 2000 al 2004 fanno crescere esponenzialmente le quotazioni dei Mavs nella Western Conference grazie al trio delle meraviglie Finley, Nowitzki e il play da Santa Clara. C’è qualcuno al quale non sfugge questa crescita ed inizia a prepararsi il terreno per un golpe all’interno della Lega. A metà stagione 2003/2004 a Phoenix viene epurato il Re di Coney Island Stephon Marbury e il coach di quei Suns, visionario tanto quanto il nostro Steve, prepara una ricetta pronta a sconvolgere la NBA. Ha il materiale necessario per dar forma alla sua visione di Basket ma gli manca un tassello fondamentale, gli manca l’Arkengemma (gli amanti di J. R. R. Tolkien sanno di cosa parlo) e non c’è bisogno di un mastro scassinatore per trovare il cuore dell’ideologia Suns, basta l’apertura del mercato dei free agent. Nell’estate del 2004 Steve Nash torna a Phoenix nei Suns di Mike D’Antoni dando vita al “seven second or less”.
Mi servirebbe una digressione lunga almeno quanto tutto questo racconto per potervi onorare della esposizione del (a mio modestissimo parere) più affascinante e divertente sistema di gioco del nuovo millennio, quindi devo riassumervelo in una semplice azione da Basket. Palla al 13 che in un perpetuo contropiede, sia esso generato da un rimbalzo difensivo, da un canestro subito o da un recupero, arma la mano di chiunque abbia un tiro a disposizione e non importa se sul cronometro siano passati anche solo due secondi, anzi, meglio: il “seven second or less”. Quello dei Suns è un sistema che si nutre dell’energia prodotta da ogni singolo elemento il cui lavoro è innescato dal fluido fatto scorrere dal suo cuore pulsante nella persona di Steve Nash. E il sistema è atipico perche rivoluziona il modo classico di interpretare il basket; i lunghi escono a tirare dall’arco, i piccoli attaccano il ferro come api attratte dal miele, il tutto in tempi mai visti. E poi c’è il fulcro principale del sistema: il gioco a due più letale della Lega: eseguono Steve Nash e Amar’e Stoudemire in pick & roll. Nash desidera il meglio per se e per riuscirci non deve prevaricare sui compagni; crede in se stesso ma soprattutto crede nel “noi” mettendo ogni Suns nelle condizioni ideali di rendere al massimo. Gli anni del connubio Nash-D’Antoni sono l’eccellenza rivoluzionaria, sono la divulgazione di un verbo non ancora ascoltato da nessuno ma in grado di attirare le folle, sono arte applicata allo sport. Steve raggiunge il suo secondo obiettivo e tiene fede per intero alla promessa fatta alla mamma: MVP in back to back nel 2005 e nel 2006 raggiungendo apici statistici abbaglianti: 50,40,90 sono rispettivamente le percentuali dal campo, da tre e ai liberi. Voi starete pensando che da qui ad arrivare al titolo NBA dei Suns basti poco; e invece non è così, questa meraviglia non partorirà mai nessun titolo, imbrigliata dalla concretezza degli Spurs nel 2005 e nel 2007 e dallo strapotere dei Mavs nel 2006, lasciando a Phoenix l’amaro in bocca per il triste fatto di avere in città la franchigia più vincente nella storia della Lega a non aver mai vinto un titolo. Il sistema non porta all’obiettivo finale, l’anello, collassa e D’Antoni viene licenziato. Steve continua a spiegarla nel deserto dell’Arizona fino a riportare i Suns in finale di conference nel 2009 infrangendosi sul canestro allo scadere di Ron Artest in gara 5 che spalanca le porte per il definitivo 4-2 Lakers. È l’ultimo tentativo di Steve di portare in cielo le anime dei sommersi Suns e nel 2012 si accasa a Los Angeles sponda giallo viola dove i referti medici saranno il suo pane quotidiano mentre le uscite sul parquet diventeranno sempre meno frequenti. Si ritira da Laker riuscendo finalmente a dedicare più tempo alla sua reale passione sportiva, il calcio, e sull’ennesimo assist fornito a Thierry Henry nelle partitelle organizzate a Roosvelt Park con la maglia dell’amato Tottenham. Mi ridesto nella mia poltroncina giusto in tempo per l’inizio della canzone di Alessandra e Adriana: “Io credo nel noi”; e non poteva essere titolo più azzeccato dopo il viaggio, di sette secondi o anche meno, fatto in compagnia del quinto giocatore più altruista nella storia della Lega con i suoi 10.335 assist. La condivisione, il desiderio del bene per il prossimo, il groviglio di etnie e di esperienze, l’eccellenza umile ed incantevole, la divulgazione del verbo per la fede che si abbraccia, il tutto riconducibile in musica dalle ragazze in concerto, il tutto riconducibile al basket nella persona di Steven John Nash.
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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro