Crespi e Masciadri, la violenza sulle donne e sulle atlete

Crespi e Masciadri, la violenza sulle donne e sulle atlete

Siamo davanti a una lettera che Stefania Passaro, ex capitana della Nazionale di basket, campionessa pluriscudettata con Vicenza e Como, ha scritto a Gianni Petrucci, il presidente della FIP, mi cui manifesta aprtamente il suo dissenso riguardo il comportamento del suo commissario tecnico Marco Crespi in occasione, pochi giorni fa, della partita della Nazionale femminile in cui Raffaella Masciadri ha concluso la sua strepitosa carriera con la maglia azzurra. Ecco il testo, delicato e doloroso come poche volte abbiamo mai letto.

“Egregio Presidente Gianni Petrucci,

prima di presentarmi, permetta una domanda: lei che di sport se ne intende, cosa penserebbe se un calciatore, diciamo del calibro di Gigi Buffon, nel giorno del suo addio alla Nazionale, al culmine della sua forma fisica e mentale, davanti ad uno stadio gremito, fosse costretto dall’allenatore di turno a guardare tutta la partita dalla panchina, senza poter accogliere dal campo, neanche per un secondo, l’ultimo applauso del suo pubblico? Questa cosa è appena successa nel basket femminile, e nessuno, ad eccezione del Corriere della Sera, che di cuore ringrazio, ne ha parlato. Il silenzio mi pare assordante, e la cosa mi ferisce profondamente. Le scrivo perché, come forse ricorda, ho indossato per 178 volte la maglia nella Nazionale italiana di pallacanestro, anche in veste di capitana, e proprio per questo non riesco, per quanto ci abbia riflettuto, a trovare alcuna giustificazione per quello che ho visto succedere mercoledì scorso, 21 novembre, durante la partita di qualificazione ai Campionati Europei di basket femminile Italia Svezia.

Per chi, diversamente da me e da lei, mercoledì scorso non era presente alla partita, ecco i fatti.

Raffaella Masciadri, la Capitana della Nazionale per antonomasia, si appresta a giocare la sua ultima partita con la maglia azzurra. Mascia – così la chiamiamo tutti nell’ambiente – ha onorato quella maglia per ben 17 anni. Ha un palmares formidabile, per il basket è molto di più di Gigi Buffon per il calcio: 193 presenze in Nazionale, 14 scudetti, 9 Coppe Italia, 13 Supercoppe italiane, una EuroCup Women, una medaglia d’oro e una d’argento ai Giochi del Mediterraneo, un argento alle Universiadi.

Insomma, un mito. Un’atleta simbolo, a cui le giocatrici accorse da tutta Italia per festeggiarla guardano come modello di comportamento ed esempio da seguire, dentro e fuori dal campo. Mascia, infatti, è anche una delle poche sportive d’élite che ha una laurea, e per evidenti meriti sportivi è Presidente della Commissione Atleti del Coni, oltre a far parte anche del direttivo dell’Associazione Giocatori.

Senza possibilità d’appello, l’Italia dovrà battere la Svezia per esser certa di andare agli Europei 2019. La partita inizia. Mascia non entra in quintetto. Non entra neanche quando l’Italia è avanti di 23 punti. Perché? Non è, come sanno tutti, la sua festa? Non ha forse il diritto di bagnare di sudore per l’ultima volta la maglia della Nazionale?

Per tutta la partita, l’allenatore azzurro Marco Crespi, davanti alle telecamere della diretta tv, ad ogni errore delle nostre, esplode in gesti furiosi, balza in campo mentre il gioco è in corso pur essendo contro il regolamento, si gela in calme improvvise per poi tornare a trascendere, pronunciando rivolto alla nostra panchina insulti irripetibili, come aspettandosi un’approvazione che, per fortuna, da nessuno della panchina gli arriva mai. Un comportamento, questo, che in quel momento, nella vetrina più prestigiosa del basket femminile nazionale ed europeo, mi umilia come se ci fossi io, in campo. Allora, all’improvviso, mi tornano alla mente certiallenatori che ho avuto, la violenza verbale fitta di insulti a sfondo sessuale di cui io e le altre eravamo succube, il pugno in testa che ricevette una mia compagna di squadra durante un time out per un tagliafuori mal fatto, il calcio nel sedere che solleva da terra il corpo minuto del mio playmaker perché aveva sbagliato uno schema, gesti mai sanzionati dai presidenti, a cui non potevamo ribellarci pena l’esclusione dalla squadra, ritenuti normali da tutti, perché “con le donne ci vuole polso”, si diceva, lo sento dire ancor oggi, come se la bravura tecnica di certi allenatori potesse sdoganare qualsiasi gesto, qualsiasi parolaccia, come se noi giocatrici ne avessimo in fondo bisogno, di tutto questo, per dare in campo il meglio di noi.

E Mascia non entra neanche quando la Svezia arriva a – 2. In campo, le sue compagne hanno perso lucidità, è il momento in cui la sua esperienza, il suo carisma e la sua motivazione servirebbero come il pane. Ma anche in questo frangente, Crespi decide di ignorarla.

Tutto il pubblico, allora, inizia ad invocare Mascia a gran voce. Mi unisco ai cori. La vogliamo in campo. Di cosa la crede incapace, adesso, il suo allenatore? Dopo averne tessuto le lodi, teme forse che improvvisamente non sia più all’altezza e gli faccia perdere la partita? Sono incredula, i minuti passano inesorabili, la squadra soffre, uno dei tre arbitri donna ingiunge a Crespi di smettere di dare in escandescenze e assumere un comportamento consono. Finché, a + 6 per l’Italia, ecco l’ultima occasione per onorare Mascia, per farle prendere la standing ovation dal campo.

Time out, pochi secondi alla fine, il risultato è ormai in tasca, impossibile perdere la partita. Vedo Mascia senza più la sopramaglia chiamare per nome Crespi. Vuole entrare, lo esige dal suo allenatore, ne ha tutto il diritto, chi se non lei? Ma lui, così come già pochi attimi prima aveva ignorato il pubblico e il proprio vice che gli suggeriva di far entrare Mascia, stavolta ignora anche lei. Con 6 punti di vantaggio, senza più rischi per il risultato, la lascia lì, a vivere dalla panchina gli ultimi struggenti attimi della sua splendida carriera in Nazionale. Perché?

Ora, Presidente, visto che, come me, lei era presente alla partita, mi risponda: c’è una spiegazione che non conosco per tutto questo? C’è qualcosa, di cui solo lei è al corrente, che possa giustificare ciò che a me e ai tanti giovani venuti per far festa è sembrata una macroscopica indelicatezza? Glielo chiedo perché so cosa si prova ad essere al termine di una lunga carriera sportiva, so cosa vuol dire strapparsi di dosso per sempre un pezzo ancora vivo di sé e aspettare invano dagli altri gesti che non arrivano, atti magari anche piccoli, certo, ma più preziosi di mille parole, che servano a lenire in qualche modo quell’enorme ferita. Non sapere perché non sono arrivati, quei gesti, può mettere addosso rabbia e tristezza, e condannare ad una cicatrizzazione lenta. Molto lenta. Qualora, però, non ci fosse alcuna ragione per ciò che è successo, o meglio, alcuna ragione che possa sembrare ragionevolmente sensata, se è vero che, come ho visto, non era volontà della Capitana rimanere tutta la partita in panchina, allora le chiedo sin d’ora di porre rimedio a questo grossolano errore, nei modi che il rispetto di questa grande atleta impone a chi come lei ricopre un ruolo così importante.

Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ma la violenza, è bene ricordarlo, è anche quella verbale, quella che urla umiliando. Ed è anche l’indifferenza deliberata di chi, ricoprendo un ruolo di potere, disattende diritti che a volte non sono normati, ma che non per questo possono essere ignorati. Compreso, secondo me, il diritto di scendere in campo anche solo per un secondo nell’ultima partita in azzurro della propria lunghissima, vincente carriera. Attendo fiduciosa una sua risposta.