Il lieto fine della Virtus Bologna

Certe storie sembrano scritte da un narratore invisibile, che lascia che il dolore, la fatica e le cadute rendano il finale ancora più dolce. È la storia della Virtus Bologna, che ieri sera ha alzato al cielo il suo diciassettesimo scudetto, chiudendo la serie contro Brescia con un perentorio 3-0. Una vittoria netta, ma per nulla scontata. Un trionfo che profuma di rivincita, redenzione e orgoglio. Una vittoria in missione per il trentatré.
Lieto fine per Duško Ivanović, il condottiero silenzioso, arrivato in punta di piedi e spesso messo in discussione. A febbraio, dopo la dolorosa eliminazione in Coppa Italia contro Milano, aveva osato dire: “Vinceremo lo scudetto.” Parole che sembravano follia, nel pieno di una stagione tribolata, costellata di sconfitte, di dubbi, di voci. Ma Ivanović non ha mai vacillato. Ha preso un gruppo logoro e lo ha tagliato e resettato. Li ha guardati negli occhi, li ha responsabilizzati uno ad uno. Non era un’illusione la sua, era visione. E ora, con il trofeo tra le mani, ha avuto ragione lui.
Lieto fine per Toko Shengelia, il gigante con il cuore lacerato. Tre finali perse, una stagione intera a rincorrere se stesso dopo essere stato per tanti MVP d’Eurolega lo scorso inverno. Sembrava destinato a un altro epilogo amaro, ma il destino aveva un piano diverso. Due giorni prima di gara cinque contro Venezia era in ospedale per un trauma cranico. Eppure, in quei cinque minuti in campo, ha scritto la leggenda. Non ha voluto abdicare, non da Re. Ha rischiato, ha lottato, ha vinto. Per la Virtus, per sé stesso. E oggi può salutare — con il miglior premio possibile per ciò che ha dato a questa maglia. Non MVP stagione che avrebbe comunque meritato, ma lo scudetto.
Lieto fine per Isaiah Cordinier, il soldato silenzioso. Discontinuo, sì. Mai il protagonista assoluto, sì. Ma quel canestro contro Trapani, in un momento che sembrava insignificante e condannare la Virtus verso un’anticipata fine, ha acceso la miccia dei playoff. Ha tolto alibi, ha acceso la speranza. Anche lui saluterà la Virtus (ieri in lacrime), ma con la consapevolezza di essere stato parte di qualcosa di grande. E con uno scudetto cucito sul petto.
Lieto fine per Marco Belinelli, il campione infinito. L’anno scorso era stato il simbolo della riscossa, l’MVP che aveva messo a tacere le critiche. Ma il titolo era sfuggito. Quest’anno, il tempo sembrava voler presentare il conto. Ma la sua fame no, quella era ancora viva. Unica. Inesauribile. E oggi, Belinelli può dire addio — se sarà addio — da vincente. Una carriera vissuta tra gloria e scetticismo, conclusa nel modo più romantico.
Lieto fine per Daniel Hackett, il gladiatore. Anche lui reduce da finali perse e da un debito con il destino. Quest’anno ha ritrovato la sua leadership, il suo fuoco. Sarà lui con la sua esperienza a guidare la Virtus del prossimo anno. L’arrivo di un giocatore con le caratteristiche Taylor deve esser una soluzione per l’anno prossimo, non un tentativo. Perché Daniel è l’anima, il ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Lieto fine per Alessandro Pajola, cuore e coraggio. La difesa è il suo pane quotidiano, ma in questi playoff ha anche segnato canestri pesanti. E poco importa se ne ha sbagliati altri: chi ci mette l’anima non deve temere. Pajola sarà e deve esser il futuro della Virtus, e ha dimostrato di poterlo essere anche nei momenti più caldi.
Lieto fine per Massimo Zanetti, il patron. Una scelta difficile presa a fine gennaio — quando ha deciso di cambiare assetto societario — ha trasformato la stagione. La Virtus è diventata ancora più sua, e questo scudetto è il giusto riconoscimento per tutto ciò che ha costruito dal 2016 a oggi. Un progetto ambizioso, italiano, vincente.
Lieto fine per Paolo Ronci, il direttore sportivo che troppo spesso è stato il parafulmine delle critiche. In silenzio ha lavorato, ha cucito equilibri, ha trovato soluzioni. L’affare Taylor è anche suo. E ora, finalmente, può godersi il momento senza interruzioni, senza veleni.
E infine, volutamente per ultimo, Achille Polonara. Il guerriero. Primo scudetto in Italia, sì, ma questo trofeo ha un sapore diverso. La sua battaglia non è solo in campo, ma in corsia, in ospedale. E quando ieri sera i compagni hanno alzato le braccia al cielo, l’hanno fatto con lui videochiamandolo. Tante chiamate, tanti saluti, tanti cori, tante dediche che hanno attraversato e rotto virtualmente le pareti dell’ospedale. Achille ha un’altra finale da vincere, quella più importante. Ma non è solo. Nessuno lo lascerà solo. Perché il basket, quando è famiglia, sa unirsi come poche cose al mondo.
E allora sì, in quel caso sarà davvero un lieto fine. Come nelle favole: “vissero felici e contenti”.
E tutti, dentro e fuori dal campo, sperano che non sia solo la fine di un capitolo, ma l’inizio di un altro nuovo libro ed esempio.
Forza Achi.