EuroLeague - 1° aprile, Milano ricorda la prima Coppa dei Campioni targata Simmenthal

Fonte: olimpiamilano.com
EuroLeague - 1° aprile, Milano ricorda la prima Coppa dei Campioni targata Simmenthal

Era il 12 marzo 1964 e il Palalido era pieno. Tutto esaurito per l’arrivo del grande Real Madrid. Il Simmenthal, che aveva vinto lo scudetto l’anno prima, aveva raggiunto la semifinale di Coppa dei Campioni. Erano tempi difficili per le squadre italiane: la Federazione, per proteggere lo sviluppo dei giocatori italiani, aveva chiuso le frontiere così Cesare Rubini andò all’assalto dell’Europa con una squadra tutta italiana. Intendiamoci, era uno squadrone: Gianfranco Pieri, Sandro Riminucci, Gabriele Vianello, Paolo Vittori, Gianfranco Sardagna e il giovane Massimo Masini erano i giocatori di riferimento. Giando Ongaro era l’enforcer dalla panchina. Erano tutti giocatori vincenti, abituati a vincere. L’anno prima avevano vinto lo scudetto senza perdere una partita. E poi erano giocatori moderni: Pieri era un playmaker di 1.90, il primo regista moderno del basket italiano; Riminucci era un realizzatore atletico, un giocatore creativo; Vianello era un altro scorer che si muoveva con eleganza, non era esplosivo ma andava dove voleva; Vittori era un’ala fisica, potente e anche lui realizzatore. Sardagna era un saltatore in alto con un personale superiore ai 2 metri. L’Olimpia riuscì a battere il Real Madrid, che di americani contando il naturalizzato Clifford Luyk, che ancora vive a Madrid, ne aveva tre. Il successo di cinque punti rappresentò un momento esaltante, ma effimero. Due settimane dopo, in Spagna, il Real Madrid dominò la partita e conquistò la finale di Coppa dei Campioni che avrebbe vinto. Ma quella semifinale convinse il Simmenthal che si poteva fare. L’anno seguente, fu l’Ignis Varese a rappresentare l’Italia in Coppa dei Campioni: venne eliminata in semifinale dal CSKA Mosca, ma fu il Real Madrid a vincere ancora il trofeo.

L’Olimpia vinse lo scudetto nel 1965 e si armò adeguatamente per le battaglie europee. La Federazione aveva riaperto le frontiere e l’Olimpia andò sul mercato con grande creatività. Il nucleo italiano non poteva più contare su Sardagna e neppure su Vittori che era passato a Varese, ma c’erano ancora Pieri, Vianello, Riminucci, Ongaro, Masini e dalla panchina anche un altro emergente, Giulio Iellini. Ma soprattutto arrivarono due americani.

L’Olimpia piazzò subito un colpo eccezionale assicurandosi Duane “Skip” Thoren, dall’università dell’Illinois, 2.08 di statura, un centro che fu scelto al numero 30 dei draft (secondo quintetto ideale della stagione) e nel 2004 è stato incluso nella squadra ideale del secolo a Illinois. Thoren veniva da Chicago e nel 1964/65 ebbe 22.2 punti e 14.5 rimbalzi di media, ma soprattutto fu il grande protagonista di un’inattesa vittoria dei Fighting Illini sulla grande UCLA di John Wooden. I Baltimore Bullets della NBA gli offrirono 6.500 dollari per andare al camp, senza garanzie. Rifiutò per accettare la proposta dell’Olimpia. Era un 2.08 di qualità, rimbalzista e realizzatore, ideale per una squadra con un nucleo italiano fortissimo. Ma il Simmenthal non si fermò qui: andò sul mercato anche per prendere il cosiddetto americano di coppa, inutilizzabile in campionato, ma schierabile nelle competizioni internazionali.

Un’ala bianca del Missouri era l’uomo del giorno in America nel college basketball. Giocava a Princeton e portò la sua squadra di accademici alle Final Four. Segnò 57 punti nella finale per il terzo posto che ancora non era stata abolita. Ma Bill Bradley non era una star qualunque: aveva grandi velleità per il proprio futuro, era il figlio di un banchiere di Crystal City, e pensava ad un futuro politico, magari alla Casa Bianca. Nel 1964 andò a Tokyo con la Nazionale americana e tornò a casa con la medaglia d’oro. Era stato il giocatore decisivo. Nel 1965 fu Giocatore dell’Anno a livello di college e venne scelto dai New York Knicks. Tuttavia, disse no alla NBA per andare a studiare a Oxford, in Inghilterra. La sua priorità era quella. Il basket doveva essere un capitolo chiuso o sospeso. Prima però di volare a Londra, accettò di disputare le Universiadi a Budapest. Segnò 12.4 punti a partita e vinse un’altra medaglia d’oro. Mentre era a Budapest venne raggiunto da Cesare Rubini, accompagnato da Enrico Pagani, ex giocatore, una sorta di ambasciatore Olimpia, fluente in inglese. Fu lui a gestire la trattativa. Bradley accettò l’idea di fare il “pendolare” da Londra per giocare la Coppa dei Campioni, ma era un perfezionista, stilò un lungo elenco di richieste, molte minime. Poi se ne andò dal meeting e informò Rubini, dopo qualche ora, che avevano un accordo.

Bradley aggredì la Coppa dei Campioni come se fosse davvero di un altro pianeta. Nelle due gare con i tedeschi di Giessen segnò 64 punti complessivi. 51 nelle due partite contro l’Hapoel Tel Aviv. Ad Anversa ne fece 42, una settimana dopo a Milano ne fece altri 33.  La formula era strana: c’era un girone con quattro squadre ma i punti venivano assegnati nell’arco del doppio confronto (per finire a punteggio pieno, sei punti, dovevi in sostanza fare meglio nei tre scontri diretti al limite perdendo anche tre volte ma sempre con la differenza punti a favore). L’Olimpia per approdare alle Final Four di Bologna (con una semifinale al Palalido di Milano) doveva in sostanza “battere” il Real Madrid nell’arco del doppio scontro.

Il 10 marzo 1966, a Madrid, l’Olimpia andò al riposo avanti di sette contro i campioni in carica guidati da Clifford Luyk, americano naturalizzato, un fenomeno che si sarebbe poi stabilito definitivamente in Spagna. Complice un arbitraggio discutibile nella ripresa, il Real rimontò e vinse di cinque, 71-66. Ma il ritorno, ultima giornata del gironcino, in palio le Final Four, era in Piazza Stuparich, al Palalido. E dopo un primo tempo difficile, il Simmenthal dilagò andando a vincere 93-76. Bradley segnò 21 punti ma per una sera a rubare la scena fu il grande scorer veneziano, Gabriele Vianello. Il mancino terribile segnò 40 punti.

Eliminato il Real Madrid, la Coppa dei Campioni, da assegnarsi a Bologna, diventò un obiettivo concreto. L’Olimpia giocò la semifinale contro il CSKA Mosca (Bradley ne fece altri 20) e conquistò la finale dell’1 aprile 1966 a Piazza Azzarita, nel tempio del basket bolognese contro lo Slavia Praga. Il basket ceko a quell’epoca – e sarebbe stato così fino a metà degli anni ’80 – era un basket importante anche e soprattutto a livello di nazionali. Lo Slavia era fortissimo con Zednicek e Jiri Zidek. Ma l’Olimpia sentiva di aver scollinato, di aver risolto molti problemi già contro il Real Madrid nei quarti e di certo temeva più il CSKA in semifinale (anche se lo Slavia nel girone eliminatorio aveva battuto il Simmenthal a Praga e anche nettamente). Skip Thoren e Vianello segnarono 21 punti a testa in finale, Bradley ne aggiunse 14 e per la prima volta nella storia una squadra italiana si issò sul tetto d’Europa. “Ho giocato 13 anni al Simmenthal e ho vinto nove scudetti – racconta Pieri – ma quello fu il momento più alto della mia carriera, della nostra storia. Eravamo un gruppo vero, stavamo bene assieme ed eravamo amici. Questo ci dava una marcia in più. Quella sera festeggiammo per le strade di Bologna bevendo champagne direttamente dalla coppa. Nessuna squadra italiana aveva mai fatto nulla di simile”, ha detto il Capitano, Pieri. Quella Coppa dei Campioni compie oggi 54 anni.