Un binomio imperfetto ma indimenticabile, un candidato al GOAT fuori dagli standard

Un binomio imperfetto ma indimenticabile, un candidato al GOAT fuori dagli standard

(di FRANCESCO RIVANO). Quando si vuole osannare l’eccellenza di una disciplina, che sia sportiva o di qualsiasi altra forma artistica, si tende sempre a rivolgere lo sguardo verso l’alto, verso coloro che, in quella determinata disciplina, hanno scritto numeri ben precisi, hanno stabilito record, hanno dato luogo agli eventi iconici nell’ambiente in cui si sono cimentati. E come potrebbe essere altrimenti. Senza dover per forza divagare in argomenti distanti da quelli affrontati in questa sede, se solo pensiamo al basket e ci venisse chiesto “chi sono i migliori di sempre?”, si aprirebbe l’infinita discussione che vedrebbe coinvolti i soliti noti: His Airness Maichael Jordan e la sua capacità di vincere sei titoli senza mai perdere una finale; LeBron “The King” James e i suoi numeri pazzeschi e tutti i record infranti; Magic Johnson e Larry Bird e la loro capacità di tirare su le sorti della Lega negli anni ’80 a suon di sfide epiche fra Los Angeles e Boston; ancora Wilt Chamberlain e il suo ineguagliabile record di 100 punti o gli undici anelli vinti da Bill Russell. Insomma, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta senza citarne molti alti per cui almeno la candidatura sarebbe d’obbligo. Numeri, sono loro a decretare l’importanza di un giocatore, sono loro a darne un’immagine da supereroe, sono loro a garantire il raggiungimento di un certo livello nella scala di valori del basket. Ma è proprio così? Siamo sicuri che siano degni di attenzione solo i freddi numeri e chi li ha fatti registrare? Siamo così certi che, per citarne due a caso, John Stockton e Charles Barkley debbano essere tagliati fuori dai dibattiti dei migliori di sempre solo per il fatto di non aver vinto un anello o di aver fatto registrare, nel corso della loro carriera, dei numeri inferiori rispetto a quelli snocciolati qui sopra? Ma soprattutto, siamo così certi che nel dibattito dei migliori di sempre debbano rientrarci solo coloro che hanno calcato i palcoscenici più noti e più visibili a tutti?

New York, anni ’60. Al boom economico che investì la media borghesia bianca e che portò un clima di benessere diffuso permettendo al consumismo di dilagare, si contrappose il disagio del proletariato che provava a resistere con l’acqua alla gola nella corsa alla sopravvivenza. I quartieri neri vivevano alla giornata nel tentativo di permettere al capofamiglia di portare qualcosa sul tavolo alla cena a cui partecipava la numerosa prole. Spesso a dare una via d’uscita era la droga, fonte di facili guadagni per pochi ma anche esca pericolosa per tanti giovani sbandati in cerca di qualcosa di nuovo da provare. È in questo clima di resistenza che si incontrano due personaggi che, seppur non calcheranno mai un parquet NBA e non stabiliranno alcun record sportivo, rientrano di diritto nella corsa che porta al titolo di personaggi più influenti del Basket. Holcombe, cresciuto a  Manhattan, personaggio distinto nei suoi abiti eleganti e l’inseparabile sigaretta tra le labbra; Earl, ultimo di nove fratelli di una famiglia di Charleston, Carolina del Sud, abbandonato e preso per mano da Mary, madre adottiva che lo ha portato con se a Harlem. È proprio a Harlem che si innesca il connubio tra due anime di sport i cui nomi sono ancora oggi sulla bocca di tutti. Holcombe era un veterano di Guerra, uno studioso, ma soprattutto era, per il quartiere nero più famoso della Grande Mela, un mentore oltreché un allenatore per le centinaia di ragazzi che si avvicinano ai playground. Earl era un anima perduta che cercava di resistere,  un animale ferito che vivendo di espedienti provava a dare una mano alla madre adottiva che si barcamenava fra tre lavori. Tra la 155esima Strada e Frederick Douglass Boulevard, c’era il campetto da street basket più frequentato e Holcombe era solito sedersi su una panchina per ammirare le gesta dei ragazzi e scovare i più talentuosi da poter inserire nel torneo Pro-Am di New York da lui fondato. “Each One, teach one”, ognuno insegna all’altro, era il mantra di Holcombe che attraverso lo sport cercava di dar spazio a tutti senza lasciare indietro nessuno. Nella sua visione del mondo tutti avevano qualcosa da dire e da insegnare al prossimo a prescindere dai soldi che avevano nel portafoglio o dal ceto sociale a cui appartenevano. Holcombe era riconosciuto a Harlem come un personaggio di culto a cui portare rispetto, a cui rivolgersi per un consiglio a cui dire grazie per aver salvato l’animo del figlio. E una delle anime a cui Holcombe aveva cercato di dare supporto era  proprio quella di Earl. Dopo averlo visto balzare sopra il tabellone di un canestro per vincere una scommessa e racimolare due spicci per sopravvivere, Earl diventò la missione di Holcombe. Lo inserì nella sua scuola di provenienza, la Franklin High School dove emerse tutto il talento sportivo del povero ragazzo. Earl in un campo da Basket era ricco di talento, tanto ricco quanto era povero nella vita reale. Riuscì a portare la squadra di basket della sua scuola a competere con la più famosa Power Memorial Accademy nelle fila della quale militava un lungagnone smilzo di cui il Basket mondiale ha riconosciuto il valore negli anni a venire. Ma la droga entrò prepotentemente nella vita di Earl. E Earl e  nonostante l’intercessione di Holcombe, venne espulso da scuola e da lì in poi si perse. È questo lo spartiacque della vita del nativo di Charleston: un misero errore che lo allontanò dai radar del basket che contava, ma che d’altro canto lo rese immortale tra le strade della Grande Mela.

La morte di Holcombe  nel marzo del 1965 toglie un punto di riferimento a molti giovani di colore bisognosi di una guida e come molti altri Earl, fra una schiacciata al playground e una spada affondata nel braccio per iniettare eroina, si perde nei meandri di una vita che gli ha riservato più dolori che gioie. Carcere e playground, comunità e playground, ancora carcere e ancora playground. Diventa questa la vita di Earl che alternerà picchi negativi fatti di down post eroina e crisi di astinenza a numeri che in una campo da basket nessuno è mai stato in grado di ripetere. Nasce tra le strade di New York e sotto i canestri dei suoi campetti più battuti la leggenda di Earl Manigault.  Earl pulirà il suo animo solo in tarda età quando il suo atletismo ha lasciato il passo a una vita sregolata, quando, capendo gli errori commessi, seguirà le orme del suo mentore Holcombe per dar man forte ai giovani in difficoltà. E a pagare a caro prezzo una vita al limite è il cuore stesso di Earl che, quando ha avuto bisogno di un trapianto, non viene mai preso in considerazione dal sistema sanitario statunitense per i trascorsi da eroinomane del suo proprietario. Earl si spegnerà a New York il 15 Maggio del 1988, nello stesso giorno in cui si è spento colui che ha portato New York in giro per il mondo con la sua voce eterna, Frank Sinatra.

“Chi è stato il miglior giocatore con cui abbia mai giocato?” Quando a quel ragazzo alto e smilzo della Power Memorial Accademy, diventato ora Kareem Abdul Jabbar hanno posto questa domanda a fine carriera la risposta è stata semplice: “The Goat” Earl Manigault. “Qual è il miglior playground di New York?” Quando a qualsiasi ragazzo che abbia calpestato i campetti della Grande Mela fate questa domanda la risposta è semplice: “The Holcombe Rucker Park”. Holcombe e Earl, un binomio imperfetto capace di dimostrare al mondo che non c’è bisogno di essere stati campioni NBA, aver segnato un certo numero di punti o alzato un determinato numeri di trofei; per entrare nella gloria eterna serve anche altro e Holcombe Rucker e Earl Manigault ne sono l’esempio e resteranno per sempre nella memoria di questo sport.

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.