Olimpia Milano, Lorenzo Brown: «So che sarà tutto complicato. Con Nebo tutto più facile»

"Per me, per avere successo in Europa, un playmaker deve sapere come vincere le partite. Prima di tutto – è banale, ma vero – serve vincere le partite. E poi costruirti un nome e continuare a spingere anche quando le cose vanno bene giocare con ancora maggiore energia. Energia e calore della tifoseria vanno di pari passo. Se segni due canestri e urli con tutto quello che hai nei polmoni, la gente risponde con ancora più energia. E così ti costruisci credibilità, trasmetti alla gente la sensazione che questo è esattamente ciò che serve. Lo stesso in difesa. Li fermi due volte, urli o coinvolgi i tifosi, anche questo fa parte del lavoro”. Lorenzo Brown l’ha detto fin dal primo giorno, sente di dover guidare la squadra, da vero playmaker, e in Europa non c’è un altro modo per avere successo. Vincere ò l’unica cosa che conta. Ma per un playmaker e, secondo lui, è vero a prescindere dal ruolo e dal livello è fondamentale sentire attorno un livello di fiducia alto, è necessaria la “comfortability”. “Per me tutto è cominciato a cambiare quando sono andato, in Russia, all’Unics Kazan e ho trovato un allenatore, Velimir Perasovic, che mi ha permesso di essere me stesso. Poi sono andato a giocare nella Nazionale spagnola e anche lì Coach Scariolo mi ha consentito di seguire l’istinto. Al Maccabi è successa la stessa cosa. La differenza è nel sentirsi a proprio agio, il più possibile, in quello che fai senza troppi rumori di sottofondo. Vale per tutti i giocatori ma soprattutto per chi viene dagli States, a prescindere dal livello: quando puoi giocare sentendoti a tuo agio, avvertendo fiducia attorno, tutto diventa un pochino più semplice”.
Lorenzo Brown viene dal sud degli Stati Uniti, dalla Georgia. Finito il liceo, alla Centennial High School di Roswell, a trenta minuti di auto da Atlanta, si è trasferito in Virginia per frequentare la Hargrave Military Academy, una prep school militare con una grande reputazione nel basket. La mattina la sveglia suonava alle cinque e Lorenzo come prima cosa doveva mettersi davanti al letto, farlo in modo appropriato e vestirsi di tutto punto. “Ho imparato tanto di me stesso, anche solo rimanendo con i piedi per terra come persona. Imparando le cose secondo il metodo militare. Alzarsi alle cinque del mattino, sentire la sirena e farsi trovare in piedi davanti al letto, avere cura del tuo aspetto. Tutte queste cose militari mi hanno costruito come persona. E poi la parte cestistica. Ho avuto un grande allenatore, Kevin Keats, grandi giocatori. Sono arrivato qui anche grazie a quella stagione trascorsa ad Hargrave”.
“The Triangle”. Così in America è conosciuto il territorio che potenzialmente unisce tre scuole dell’Atlantic Coast Conference, tutte con una grande tradizione e divise da pochi chilometri. “In realtà ci sono altre scuole importanti attorno, ad esempio Wake Forest. Ma Duke, North Carolina e North Carolina State rappresentano il cuore della passione. Però all’interno del triangolo, noi, i Wolfpacks, siamo sempre considerati l’ultima ruota del carro”, racconta Lorenzo. Ma nei suoi ultimi due anni a Raleigh, North Carolina State è stata dura, solida e vincente. Due volte ha raggiunto il Torneo NCAA. Brown ha guidato la conference in palle rubate un anno e in assist l’anno dopo. “Nel mio anno da junior, siamo arrivati al numero 6 del ranking nazionale. Partire in sostanza dal nulla e arrivare al numero sei, dimostra che avevamo tanto carattere e per un po’ siamo stati al top anche nel North Carolina, nel triangolo”. Quell’anno, North Carolina State sconfisse sul suo campo sua North Carolina che Duke. Brown era il motore della squadra. Ebbe 20 punti e 11 assist contro UNC, 12 punti e 13 assist contro Duke. “La NBA è l’obiettivo di tutti. Ho pensato che se avessi lavorato ogni giorno il più duramente possibile alla fine l’avrei raggiunta. La svolta è stata con l’arrivo di Mark Gottfried a NC State: è stato il primo a farmi giocare da point-guard”
Lorenzo Brown sulla sua evoluzione - A determinare la svolta fu l’arrivo come allenatore di Mark Gottfried: “Da freshman giocavo guardia. Ma Coach Gottfried mi ha spostato nel ruolo di playmaker. Questo credo abbia cambiato la traiettoria della mia carriera, ha accelerato il percorso”. Brown sognava di andare nella NBA a quel punto, ma con realismo. “La NBA è l’obiettivo di tutti, non puoi essere sicuro di farcela. Io ho pensato che lavorando duro e dando il massimo ogni giorno, ogni singola partita, alla fine ce l’avrei fatta. Così ci ho provato in ogni partita, ogni giorno ero in palestra a lavorare su cose nuove, a costruire il mio carattere”.
Dopo un anno trascorso in Cina, un po’ di NBA e tanta G-League, Lorenzo è sbarcato in Europa. Prima tappa, Belgrado, la Stella Rossa, l’EuroLeague. “Il primo anno, è stato inizialmente un tantino difficile, perché dovevo cercare di capire la lega. E non giocavo nemmeno tanto, quindi dovevo adattarmi e capire cosa avesse senso. Tutto ha cominciato a funzionare meglio dopo un mese e mezzo, due mesi. Mentalmente ero a posto, ho compreso lo stile di gioco e la fisicità del basket europeo un po’ meglio. Poi ovviamente c’è il fattore ambientale che può influenzarti soprattutto se sei americano e non abituato a giocare in un certo tipo di clima. Personalmente, non avevo mai visto quel tipo di atmosfera. È stato uno shock all’inizio. Poi mi sono adattato, ho imparato ad abbracciare la cultura europea. Questo è stato il fattore decisivo, che ha reso tutto più divertente”.
“L’EuroLeague è come una partita a scacchi come diceva Kyle Hines perché devi costantemente pensare. Mossa dopo mossa. Devi essere sempre un passo avanti, non sai mai cosa possa succedere”
Lorenzo Brown su cosa significhi giocare in EuroLeague - Dopo la Stella Rossa ha giocato al Fenerbahce, a Kazan, al Maccabi dove il suo gioco è salito di livello. “Conosco l’analogia di Kyle Hines – ricorda -. Giocare in EuroLeague è come giocare a scacchi, nel senso che devi pensare costantemente, analizzare mossa dopo mossa. Quando giochi qui devi cercare di agire un passo avanti all’avversario, perché non sai mai cosa possa accadere. E c’è anche tanto talento. Questo è il problema per molti americani quando vengono qui: non realizzano subito che non sarà una passeggiata anche se non è la NBA. Quando metti piede in campo, lo vedi subito, che c’è gente che sa giocare anche qui. E un’altra cosa: i giocatori che sono qui da qualche anno capiscono il gioco molto di più – mi riferisco a coloro che ormai sono diventati grandi giocatori in Europa – e quando li affronti è meglio esserne consapevoli, perché per emergere devi fare qualcosa di speciale”.
Milano è la sua prossima tappa. E ha grandi aspettative. “So che sarà tutto complicato, che abbiamo tanti giocatori nuovi, incluso me stesso, ma anche tanta esperienza in questa squadra. E questo aspetto in Europa non è da trascurare. In questo l’EuroLeague è molto diversa dalla NBA che è sensibilmente più giovane come lega. Qui, le squadre mature sono quelle che vincono di più. A Milano abbiamo una squadra con tanta esperienza, con tanti veterani. Questo ci aiuterà tantissimo nel corso della stagione”. Come lo aiuterà giocare con Josh Nebo. “Giocavamo insieme al Maccabi. Con lui puoi alzare la palla dove vuoi, anche fuori campo, e lui probabilmente salterà e la farà propria. È il classico giocatore che rende tutto più facile. Mi diverte giocare con lui, penso che lui si diverta a giocare con me. Quest’anno mi aspetto tanto da Josh, perché è più maturo, conosce meglio il gioco, la scorsa stagione è stato fuori e adesso sono sicuro che non vede l’ora di tornare in mezzo all’area e darci tante, tante, giocate da highlights”.