Resilienza. Marco Belinelli non ha mai smesso di lottare per vincere

Una leggenda dice basta. Marco Belinelli si ritira. Sinonimo di resilienza, quella che per tutta la carriera lo ha contraddistinto. Il debutto in Serie A ad appena 16 anni con la Virtus Bologna. Il passaggio alla Fortitudo nel 2003, la EuroLeague sfiorata. Ma la storia la scrive oltreoceano: scelto al Draft NBA del 2007 con la 18esima scelta, approda negli USA subito con grande impatto. 37 punti nella prima partita della Summer League. "Non parlavo l'ingese. Ero nervoso. La cosa che non mi piaceva era che tutti cercavano di mettersi in mostra ed il gioco era molto disordinato. Pensai, come posso farmi notare?... Dopo presi una decisione e pensai, sai che cosa? Tutte le volte che ne ho la possibilità, tiro. E' basket semplicemente, giusto? Tutti lo comprendono. Quando alzai lo sguardo, avevo 36 o 37 punti. E' Summer League, ok, ma dimostrai a me stesso di poter segnare contro giocatori NBA. Quel giorno non avevo bisogno di parlare inglese, il basket era la lingua che meglio conoscevo", raccontò qualche anno fa a Players Tribune.
Resilienza. Marco Belinelli si è dovuto strappare il posto in NBA. Immaginate: un anno da 33 partite, 7.3 minuti. A Golden State il campo lo ha visto poco, a Toronto nel 2009/10 anche meno. Marco si è dovuto prendere i suoi minuti e lo ha fatto con gli Hornets nel biennio dal 2010 al 2012, registrando per la prima volta una doppia cifra di media. Poi Chicago, quella storica "big balls celebration" in Gara 7 contro i Brooklyn Nets. L'estate dopo il passaggio ai San Antonio Spurs dove è diventato rapidamente parte integrante del sistema di Gregg Popovich, al fianco di altre leggende come Parker, Ginobili, Duncan. Insomma, Belinelli è la dimostrazione vivente che il talento da solo non basta. Serve disciplina, visione e soprattutto resilienza: la capacità di rialzarsi, reinventarsi e andare avanti, anche quando sembra tutto in salita.
"Due anni a San Francisco, uno a Toronto: cominciai a rinascere a New Orleans con gli Hornets. Avvertii la possibilità di esprimere quello che sapevo fare, e lo feci. Passai ai Chicago Bulls e poi ai San Antonio Spurs, con i quali vinsi il campionato", disse nel 2017 all'Huffpost. "Fin da piccolo, i miei allenatori hanno riconosciuto in me una caratteristica: la capacità di apprendere dagli errori. Sbagliavo, me lo facevano notare e all'azione successiva avevo già imparato la lezione. Lo sbaglio è un maestro eccellente. Ho sempre cercato di ascoltare quello che aveva da dirmi su me stesso. Ringrazio chi mi dava per fallito nell'NBA. Mi ha dato la forza di insistere. Mi sono allenato pensando al giorno in cui li avrei guardati in faccia e avrei detto loro 'Dicevate?'".
Una resilienza che non ha abbandonato neanche negli ultimi anni di carriera. Un anno fa, ad aprile del 2024, aveva dichiarato di aver pensato di mollare l'anno precedente. Quando nella Virtus di Scariolo era finito ai margini delle rotazioni. Invece è rimasto lì, dopo l'arrivo di Luca Banchi è tornato ad avere tanto da dare. "Probabilmente l’allenatore di prima mi ha dato tanta motivazione dentro per dimostrare che si sbagliava. E quindi io cerco di dimostrare questo". Insomma, la stessa mentalità che lo ha accompagnato per tutta la carriera. "Tornavo a casa incazzato, ero andato vicino con mia moglie a dire "non ce la faccio più, mi sa che mollo perché chi me lo fa fare a 37 anni, una roba del genere dopo la mia carriera". Un momento tosto per me [...] Probabilmente le cose dell'anno scorso, come quando non giocavo nella NBA, mi motivano per dire "no, vi sbagliate tutti quanti e prima o poi ve lo farò capire". Poi è successo, può anche essere che non avvenga. Però le critiche sono quella forza che mi fa andare avanti". E alla fine ha chiuso con lo Scudetto nello scorso giugno.