Sergei Belov, il "divino" del basket europeo

Sergei Belov, il "divino" del basket europeo

(Mario Arceri) - Che triste andarsene a soli sessantanove anni se si è stati tra i più grandi campioni di sempre. Ci lascia anche Sergei Belov, uno dei talenti più puri che il basket mondiale abbia mai prodotto. Lo chiamavano il "divino", era l'unico sovietico che avrebbe potuto tranquillamente giocare in qualsiasi squadra della Nba. E, nel 1972, fu il protagonista con 20 punti della clamorosa (e unica) vittoria olimpica dell'Unione Sovietica in quella finale a Monaco che è passata alla storia per l'ordine di Mister Jones di far ripetere i tre secondi finali: rimessa dal fondo di Edeshko, palla ad Alexander Belov sotto il canestro americano per i due punti della vittoria sovietica sugli Usa che fino a quel momento (e, poi, fino a Seul '88) non avevano mai perso una sola partita ai Giochi Olimpici...

Sergei Belov fu comunque ben altro. L'uomo di punta dell'Urss, che a cavallo degli anni settanta vinceva Olimpiadi, Mondiali ed Europei, e del Cska, la squadra dell'Armata Rossa, e cioè del potente esercito sovietico (ora è un club privato), che portò due volte a conquistare la Coppa dei Campioni nel periodo d'oro dell'Ignis Varese di Meneghin.

Ed era anche un grande amico del nostro basket, al punto che, nella fase meno felice della sua vicenda nell'Unione Sovietica e quando gli fu infine consentito di espatriare, cercò, con l'aiuto di Maurizio Martolini, una panchina in Italia fermandosi però a quella di Cassino, in B2 perché i regolamenti permettevano di allenare una squadra professionistica solo a coach stranieri che avessero vinto un oro tra Olimpiadi, Mondiali ed Europei, ma non ad un grande campione come Sergei (sette medaglie d'oro nelle massime competizioni internazionali, insieme a tre argenti e cinque bronzi, undici volte campione sovietico, pozzo di scienza cestistica).

Si era deciso a partire quando si era reso conto che la sua stella stava declinando rapidamente. Lo avevo incontrato più volte a Mosca, in occasione delle partite di Coppa dei Campioni del Cska contro squadre italiane, stringendo una forte amicizia. L'arena era quella dell'Armata Rossa che proponeva due altissime tribune sui lati lunghi del campo. I posti, quasi per intero occupati da militari in divisa, venivano assegnati secondo la… nomenklatura: nelle file più basse gli alti gradi militari e le personalità politiche, in primissima fila gli eroi sportivi del Cska, tra cui ovviamente Sergei ed anche Anatolyi Myshkin, un'ala che giocava come un… americano.

Lo ricordo con il racconto del declino della sua stella (e la colpa fu anche dell'Italia che riuscì ad infliggere incredibilmente la prima sconfitta interna in una gara ufficiale all'Urss e proprio nella "sua" Olimpiade, volando poi alla conquista della medaglia d'agrento) che ne ho fatto sulla Leggenda del Basket (pagg. 543-545) nel capitolo riferito ai Giochi Olimpici di cui Belov fu protagonista in ben quattro edizioni, e, in  particolare, all'Olimpiade di Mosca dell'80 nella quale fu prescelto per accendere la fiamma olimpica riconoscendogli il ruolo di atleta più importante e rappresentativo dell'intero impero sovietico.

"Bronzo all’Urss, scatenata contro la Spagna (117-94). Sergei Belov segna 29 punti, ma è lui a pagare per il Grande Disastro sovietico. Doveva essere il personaggio centrale dell’Olimpiade nello sport più atteso dall’intera Unione Sovietica. Jugoslavia e Italia rompono le uova nel paniere di Gomelski, si scatena la caccia al colpevole che viene rintracciato in Sergei, splendida figura di atleta, poi entrato anche nella Hall of Fame, unico giocatore insieme al connazionale Gennady Volnov a essere salito quattro volte sul podio olimpico (un oro e tre bronzi per Sergei, un oro, due argenti e un bronzo per Gennady), che paga la responsabilità oggettiva del fallimento con il… pensionamento e un triste e progressivo isolamento.

"Da esso uscirà solo dopo la caduta dell’impero sovietico, per tornare a essere l’uomo di punta del basket russo, in eterno conflitto con Gomelski, dopo una prolungata ma poco soddisfacente esperienza tecnica anche in Italia: a Cassino, in B2, perché i regolamenti dell’epoca non consentivano di guidare una squadra di categoria superiore a un personaggio che da atleta – e non da coach – aveva vinto Olimpiadi, Mondiali, Europei, titoli russi e Coppe continentali, imponendosi per quasi vent’anni come il miglior giocatore europeo, tra i migliori al mondo.

"Lo abbiamo incontrato a Mosca quattro anni più tardi, nel 1984 seguendo il Banco di Roma in Coppa dei Campioni. Relegato in un piccolo ufficio della sua Armata Rossa, dimenticato in fretta in una «purga» dal sapore staliniano. Insieme ad Anatoly Myshkin, il più «americano» – per gioco e per carattere – di quella grande squadra sovietica, aveva un posto riservato in cima alle tribune del Palasport della Cska, dove si relegavano i personaggi scomodi.

"Siamo tornati a incontrarlo quattro anni più tardi, quando la «perestrojka» di Michail Gorbaciov aveva allentato le pressioni. Qualche capello bianco in più, ma molta meno tristezza negli occhi che un tempo brillavano di arguzia e ironia. I tempi erano cambiati, e Sergei parlò volentieri: «Mi sono lasciato alle spalle otto anni di vita dura e difficile. Non è bello cadere in disgrazia qui da noi, vedere come si dimentica in fretta quello che s’è fatto prima. Responsabilità? Non voglio accusare nessuno. No, nemmeno Gomelski che ha saputo sempre salvarsi e che ora ha ricevuto anche il bel premio del trasferimento in Spagna».

"L’Urss aveva infatti appena vinto i Giochi di Seul, e Belov non si risparmiò una frecciata: «Più che vincerla Gomelski, quell’Olimpiade l’ha perduta John Thompson. Ha tenuto i suoi reclusi per tre mesi, non è riuscito a fare una squadra. L’Urss? Sabonis è grandissimo, ma è l’unico a un livello super». Alexander Volkov era volato a Kiev per cercare la strada più breve verso la Nba, dove sarebbe approdato l’anno successivo, Sarunas Marciulonis e Arvidas Sabonis avrebbero presto raggiunto l’America.

"Belov era stato sicuramente il primo giocatore sovietico in grado di giocare al fianco dei professionisti: «Credo di sì. Credo che a quei livelli avrei potuto comportarmi discretamente. Ho sbagliato generazione…». E si avvicinava il tempo del basket open: «Diciamoci la verità, siamo stati tutti professionisti, già da molti anni. Cadrà solo una grande ipocrisia». E già allora si parlava di una Lega europea, magari una quinta conference della Nba: «Un’idea interessante, che si giochi nelle grandi città come Mosca, Roma, Londra, Parigi». È arrivata, ma non nei termini che sognava Sergei."

Sergei Belov, guardia-play di 1.90, era nato a Nashekov il 23 gennaio del 1944. E' morto al termine di una lunga malattia, a Perm dove tra il 1999 e il 2002 aveva allenato l'Ural Great, prima di abbandonare la pallacanestro. Tra il 1993 e il 1998 aveva guidato la nazionale russa portandola all'argento del '94 a Toronto e del '98 ad Atene.

Patrick Baumann l'ha ricordato così: "Uno dei più grandi giocatori di sempre e una delle "stelle" che hanno contribuito alla crescita del basket nel mondo intero".

Io lo ricordo per la sua amicizia, la sua umanità, il suo stile, la sua fantasia, il suo spirito libero così difficile e pericoloso da esprimere in un Paese in cui la parola libertà era sinonimo di eversione: requisiti espressi in campo come nella vita.

La sua scomparsa è stata resa nota dalla federazione russa in un giorno di profondo dolore e di atroce lutto per il nostro Paese sconvolto dalla agghiacciante tragedia del barcone bruciato ed affondato al largo di Lampedusa con centinaia di vittime. Uomini, donne, bambini in fuga da regimi oppressivi e dagli orrori della guerra per inseguire la libertà.

A loro che oggi hanno perso la vita, alle migliaia che nei mesi e negli anni passati hanno visto spegnersi nelle acque del Canale di Sicilia la vita e i sogni, il cordoglio più sentito. A Sergei l'abbraccio affettuoso di un vecchio amico e il ringraziamento per i "divini" momenti che con il suo gioco ci ha fatto godere dimenticando per poche ore i dolori della vita.