Matteo Boniciolli sulla finale Rimini-Cantù: «Titolo giornalistico può essere “Cantù deve vincere, Rimini può vincerla”»

Matteo Boniciolli ha parlato ai canali ufficiali della LNP. Di seguito l'intervista:
“Come sto? Un eccesso di precauzione, seguito ad esami clinici, mi ha fermato. Successivi esami hanno certificato il mio stato di salute di persona sana. Alleno, attendo, valuto. Ed un bravo a Paolo Moretti”.
Di cosa relaziona al Clinic di Seregno?
“Che per un giocatore l’equilibrio è più importante della velocità. Mi arrivano in soccorso un paio di discreti giocatori dell’NBA, Nikola Jokic e Luka Doncic. Con la tecnica e l’uso del piede perno dominano la Lega di quelli che, con un balzo, mettono la testa nel canestro”.
Ma gli allenatori hanno ancora il tempo per lavorare sulla crescita tecnica dei giocatori?
“I giocatori hanno il diritto di scegliere se restare in un Club o andarsene. Gli allenatori, di fare Kleenex dei giocatori.
Ma se tu gli dimostri il desiderio di occuparsi di lui, crei un legame. Magari non se ne accorge subito, ma gli allunghi la carriera. Me lo ha riconosciuto Keith Langford, per due anni top scorer di Eurolega ed MVP della finale di Fiba Eurochallenge vinta assieme con la Virtus Bologna. Sono i giocatori a migliorare il sistema e non il contrario”.
Parliamo di finali, Boniciolli. Il pallottoliere ne somma per lei 17, dalla A2, che ci interessa particolarmente, fino alle massime leghe italiane ed europee, di campionati come di coppe. Più vinte che perse. Una finale è la prosecuzione della stagione regolare?
“No. Decisamente un nuovo inizio, perché ti giochi in 10 giorni un anno di lavoro che contempla le semifinali”.
Quindi il 2-0 di Cantù, o 0-2 visto da Rimini, in stagione regolare non conta nulla?
“Zero. Se Cantù in questa finale vale 10, Rimini vale 9+. E ci arriva con la gioia di giocarla. Il titolo giornalistico può essere “Cantù deve vincere, Rimini può vincerla”. Rimini compensa quello 0-2 con la qualità della stagione ed il vantaggio del fattore campo. L’ambiente attorno alle squadre può influenzare l’atteggiamento sul parquet”.
Quando si arriva alla finale, servono anche i giocatori da finale.
“Cito Trevor Lacey, che in finale sale sempre di rendimento. Sul +10 mi diceva “toglimi, non mi diverto”. E, scesi a +1, “…rimettimi dobbiamo vincere”. Quello che ha fatto con Cremona riportandola in A, mentre per me non poté a Udine l’anno prima. I grandi giocatori in finale si divertono, tra i miei dico anche Langford, Charles Smith, Basile. Erano i padroni di quell’acquario”.
Chi è il giocatore da playoff?
“I giocatori si dividono in tre categorie: scarsi, buoni e buoni che ti fanno vincere. E dicendolo cito il mio amico Alessandro Ramagli che ha il diritto di primogenitura. Se tu non alleni giocatori vincenti, non sarai mai vincente. I miei sono stati Andrea Meneghin, Gianluca Basile, Dusan Vukcevic, Alex Righetti. O quelli che non mi hanno mai fatto sentire solo: Marques Greeen, Devin Smith, Davide Cantarello”.
Arriva la finale. E l’allenatore è stretto nella morsa dello spremere quelli che gli possono far vincere la finale; e quelli che servono ad allungare le rotazioni, a fonte di possibili 5 gare in 11 giorni, anche torridi. Ma col rischio di perderla.
“Non ho mai tirato fuori un giocatore che mi stava facendo vincere una partita, per risparmiarlo. Anche perché sono quelli che ti tolgono l’ansia del dover vincere. Dell’ambiente che vuole la Serie A, dalla proprietà che ci mette soldi, della moglie che vuole un’estate tranquilla e non col marito scazzato”.
Spogliatoio prima di una partita. L’allenatore guarda i giocatori e sa chi già chi gli darà una finale? E chi non la può giocare?
“Senza dubbio. Ma lo indica una stagione, i suoi snodi, partite cruciali vinte o perse, le crisi, chi ha saputo reagire. Anche se non è una legge scritta”.
Ad esempio?
“Sono assistente nella Stefanel Trieste di Tanjevic. Siamo a Pesaro, due liberi per Gentile, valgono la finale. Li abbiamo tutti visti già dentro. Fa 0/2. Nando Gentile. A fine gara Bepi Stefanel ci fa capire che basta, è finita, chiude e trasloca a Milano. Dove poi vincerà ed ha ragione lui. Se io oggi mi giocassi un campionato su due tiri liberi, telefono a Nando Gentile, che ha quasi sessant’anni, per invitarlo a tirarli”.
Brienza e Dell’Agnello dovranno gestire quelle rotazioni. Faranno cambi, oppure meno. Saranno criticati per questo e quello.
“Due allenatori che stimo moltissimo, meritatamente in finale. L’equilibrio che guida quelle scelte è molto sottile. Come in tutte le professioni ci sono allenatori bravi, normali e scarsi. Nessuno come loro conosce le squadre. Sapranno capire il momento, in cui puoi permetterti per qualche minuto di rinunciare a chi ti può far vincere. Per mettere dentro uno col mandato di non sbagliare”.
Non stiamo parlando di algoritmi, insomma.
“La qualità dell’analisi statistica è avanzata, so l’efficacia di ogni singolo quintetto. Ma se il tuo leader prima di venire al campo ha litigato con la moglie, e non ha riposato, questo il big data non te lo dice. Ma se guardi il giocatore negli occhi, si può capire”.
Che squadre sono quelle di Brienza?
“Di Nicola mi piace la carriera costruita con grande costanza. E la sfida, da miglior allenatore di LBA, di accettare l’offerta di casa sua, di un ambiente di enorme passione, tanta per quanto è tormentato dalle ansie. Non è in guerra, ma ha avuto coraggio, poteva aspettare la prima testa a cadere in LBA ed avrebbero preso lui. Le sue squadre lo rispecchiano, sono solide, sfruttano i punti forti, la corsa come nella tradizione di Cantù, gli isolamenti per McGee, la regia dei due play, il vissuto di Moraschini e Baldi Rossi, e poi uno dei 4 più interessanti del panorama, Basile. Più Piccoli, equilibratore clamoroso dietro ma anche con la tripla importante. Questa Cantù in LBA non faceva i playoff ma si salvava. Vincere non è mai facile, soprattutto quando hai la squadra forte. Cosa non banale: ha alzato la Coppa Italia che non vinceva mai. Noi italiani siamo straordinari cultori dell’underdogghismo, da sfavoriti vinciamo gli Europei di calcio, se ci riteniamo forti guardiamo i Mondiali in tv”.
Dell’Agnello invece è stato grande giocatore. Oggi è allenatore o ancora ex-giocatore in ciò che propone?
“Sandro appartiene alla categoria degli uomini veri. Senza dire una parola trasferisce la sua presenza. Con lui un giocatore non può mentire. Basta uno sguardo. Rimini ha qualità di gioco, idee, schemi interessanti, come il lavoro sulle rimesse. Senza mancare di rispetto a quanto ha già fatto, questa stagione è il suo capolavoro”.
Riprendiamo in mano il ranking di inizio stagione, cosa ci dice?
“Allargo l’analisi. Lo scorso anno Dell’Agnello arriva a Rimini che è quasi ultima ed in un anno e mezzo la porta in finale. Un anno e mezzo fa Cantù era nella stessa situazione, giocava per salire. Ma l’etichetta del perdente la dà solo quello che le finali le guarda in tv”.
Lei è il negazionista principe del “…i favoriti sono loro”.
“In Italia lo scoglio è vincere da favoriti. Non si può dire. Lo stellone… la scaramanzia… la strategia… la sfortuna… i precedenti. Sapete perché pallavolo e pallanuoto vincono ed il basket no? Perché si portano ancora dietro la semina culturale di Velasco e Rudic. Mentalità. Vincere con la consapevolezza di essere più forte. Ricordo una finale tra Zidane ed Allegri. “I favoriti sono loro”. “No, loro”. Ma dai, allenavano Real Madrid e Juventus”.
Esportiamola in Rimini-Cantù. Dichiara Dell’Agnello: “Non mi sento sfavorito”. Che messaggio manda?
“Diciamo che è un avvicinamento sottile al partito che i favoriti sono gli altri… Ma non dà alibi ai suoi. Questo Sandro non l’ha detto e lo rifiuta. Andare in finale senza pressione non esiste. Chi ti dice che ne giocherai altre? Udine è salita dopo aver giocato quattro finali consecutive. Che hanno fatto maturare nell’ambiente l’idea che si potesse fare. E prima o poi avrebbe vinto. Se vincerà Cantù sarà anche figlio del recente passato. Ma anche Rimini ha costruito, negli anni. Non si vince una finale perché hai 10 giorni di grazia”.
Vox populi: Cantù vince perché ha 3 stranieri.
“Se Cantù vincerà è perché è ben allenata e visto che sono in tanti vuol dire che i giocatori hanno accettato il proprio ruolo. Cantù ha vinto quando contava e con McGee fuori parecchio”.
Rimini: aveva scelto Robert Johnson, si è ritrovata Gerald Robinson. Nella miglior versione, in questi playoff.
“Giocatore clamoroso, crea vantaggio dal palleggio senza uso dei blocchi. A Scafati ci ha salvato con tre turni di anticipo, ricordo momenti di onnipotenza da 16 punti consecutivi. Il limite è che alla sua pallacanestro serve tanta energia, che può mancare. Altrimenti vale l’Eurolega. Ma non è solo a Rimini, Tomassini mi ricorda Rosselli, non è giovane, non è atleta, ma ha un controllo raro della partita. Grande aggiunge una carica agonistica che a vederlo in tv tendi a schivarlo”.
Fattore stanchezza. Ha dichiarato Vassilis Spanoulis, leggenda della Grecia ed attuale coach di Monaco.
“Non è una scusa possibile. La stanchezza vale per madri e padri che lavorano tutto il giorno per portare a casa da mangiare ai figli e pagare l'affitto. Stanchi per il basket? Non è possibile, hai fatto della tua passione un lavoro”.
“Parole giuste e legittime, che integro. L’adrenalina ti fa dimenticare stanchezza ed acciacchi. Finita la serie dormi due settimane, se la vinci. Se la perdi, forse un po’ meno”.
Prima di chiudere, ci racconta di quella volta che doveva diventare un giocatore di Cantù?
“Avevo 12 anni, ero già alto così ma pesavo 40 chili in meno… Era il 1974, Cantù reclutava e mi vollero vedere. Avevo un buon tiro, da ala sarei evoluto in guardia. Vado per il provino, mi alleno con Taurisano. Di quell’esperienza ho come ricordo una maglia della Forst ed un pranzo nella mitica foresteria di via Malchi. Al tavolo vicino c’era Harthorne Wingo, idolo totale per me. Non seppi più nulla. Dopo molti anni, mio padre mi confessò che il provino andò bene. Ma non mi disse nulla, cedette alle pressioni di un allenatore di Trieste che lo convinse a rifiutare. Quello era il gruppo con Antonello Riva”.