Valentina Vezzali «Le scuole boicottano gli studenti che fanno sport»
Le scuole italiane penalizzano i giovani e gli adolescenti che praticano sport agonistico di alto livello. Compresi quelli che rappresentano l'Italia con i colori azzurri, in Europa e nel mondo. Valentina Vezzali, campionessa quarantaquattrenne con 36 anni di pedane alle spalle, mamma di Pietro e Andrea e consigliere della Federazione italiana scherma, solleva il problema. E invita gli istituti scolastici a non considerare lo sport come avversario dell'attività didattica ma come alleato nella formazione delle nuove generazioni. Anche perché, spiega la fiorettista di Jesi che in carriera ha vinto nove medaglie olimpiche (sei d'oro, una d'argento, una di bronzo), lo sport produce il 2% del prodotto interno lordo italiano e diffonde valori positivi nella società. Tuttavia, nella maggioranza delle scuole italiane, la questione è ancora snobbata e, in molti casi, ci sono docenti convinti che lo sport sia inconciliabile con i libri. Cosa ben diversa rispetto a quanto accade in America: al punto che i loro college arrivano ad attirare i nostri studenti atleti, formati in Italia, con allettanti offerte di studio e di lavoro.
Il ministero dell'Istruzione (Miur), in collaborazione con il Coni, gestisce un programma sperimentale sugli studenti atleti di alto livello (vedere il riquadro a destra), spesso vissuto con diffidenza dal mondo della scuola. In questo anno scolastico 2017-2018 sono 1.309 gli studenti-atleti coinvolti (+191% rispett o al 2016/2017), iscritti in 356 scuole di 18 regioni, soprattutto nei licei scientifici (44% del totale delle scuole partecipanti), negli istituti tecnici (21%), nei licei sportivi (18%) e negli istituti professionali (3%). Sono seguiti da 596 tutor scolastici e 721 tutor sportivi, pur se a ogni tutor sportivo dovrebbe corrispondere un tutor scolastico. Sono oltre 70 le discipline sportive praticate dagli studenti «agonisti». Le più seguite: il calcio (22%), gli sport acquatici (14%), l'atletica e il basket (entrambe all'8%). Le regioni con più scuole aderenti al programma del Miur sono Lombardia (22%), Lazio (12%), Piemonte ed Emilia Romagna (10%). Numeri ancora bassi.
Se il programma sperimentale del Miur è la teoria, la pratica vissuta nelle scuole è diversa: si va da studenti -atleti che non raccontano ai docenti di fare agonismo per timore «di ritorsioni», a professori che abbassano i voti «a prescindere»; ad altri che, pur senza mai essersi interessati allo sport praticato dal giovane, si ritrovano agli esami di maturità studenti assunti da gruppi sportivi già inseriti nel mondo del lavoro, ad alcuni che ancora minacciano interrogazioni «a sorpresa» e debiti ad atleti delle nazionali giovanili. Alcuni professori tacciano lo studente agonista di alto livello di essere un «privilegiato», causando un distacco dai compagni. In realtà, si tratta di giovani che di scuole ne fanno due: una è fatta di banchi e libri, l'altra di tanto sudore e voglia di arrivare primi. Fino alle olimpiadi.
Vezzali, da giovane atleta di alto livello, com'era il suo rapporto con i suoi insegnanti? Mai avuto problemi? «La mia maestra sosteneva che lo sport facesse male perché toglieva tempo allo studio. Mi aveva preso di mira: una mattina, in quarta elementare, mi disse che non sarei stata in grado nemmeno di leggere un numero a tre cifre. Per me fu un trauma. Ho superato quell'esperienza negativa impegnandomi ancor di più sia nello studio e sia nella scherma, ottimizzando il tempo a disposizione. All'esame di maturità ottenni il massimo dei voti e il commissario esterno mi disse: "Complimenti Vezzali, ha vinto anche qui". Fu una grande soddisfazione».
Perché, in Italia, la scuola manca ancora di cultura sportiva? «A livello di istituzioni si inizia a comprendere la valenza che lo sport ha nella formazione e nell'educazione dei giovani. Il Coni e il Miur stanno collaborando per valorizzare l'atleta studente. Il problema resta culturale: i professori dovrebbero comprendere che i loro studenti atleti nel mondo inorgogliscono il nostro Paese e di conseguenza dovrebbero apprezzare l'impegno di chi, ogni pomeriggio, lavora duramente in palestra e mantiene fede agli impegni scolastici. Questi ragazzi non vivono come la maggior parte dei loro coetanei. I sacrifici ci sono, tanti. E iniziano da bambini».
Che vita faceva da studentessa adolescente, e insieme sportiva? «Mi svegliavo alle 7 per andare a scuola. Studiavo dalle 14 alle 17.30 e poi mi allenavo in palestra fino alle 21. Dopo cena studiavo finché ce n'era bisogno. Sceglievo di farmi interrogare prima di partire per una gara o per una trasferta di diversi giorni. Alle superiori con i professori giocavo d'anticipo. Alla fine compresero che lo sport non era poi così "dannoso" per il mio rendimento scolastico. Una bella rivincita sulla mia maestra delle elementari...».
Che appello rivolge alle scuole? «Un tempo, chi faceva i licei doveva smettere di fare sport. A qualsiasi livello fosse. Ancora oggi, nonostante gli sforzi delle istituzioni, sento raccontare cose simili. I professori continuano a leggere lo sport come una "distrazione". Il mio appello è quello di guardare allo sport come un alleato della scuola al servizio dei giovani. Ritengo sia un limite di un intero Paese il fatto che lo sport non venga concepito dagli insegnanti come uno strumento educativo, di formazione, di crescita, qualcosa che ti permette di avere una marcia in più nella vita».
Quali Paesi considerano gli studenti atleti impegnati nell'agonismo di alto livello? «Negli Stati Uniti fare sport vale tanto quanto studiare, per questo chi vince ottiene borse di studio nelle università più prestigiose. Anni fa, in Corea, partecipavo a una prova di Coppa del mondo. Ricordo che gli schermidori americani, in una stanza, sostenevano gli esami universitari via internet. Ma anche la Francia, la Gran Bretagna, la Germania e altre nazioni de l Nord Europa sono più avanti di noi...».
Un dato a margine può aiutare a capire il fenomeno: in Italia quattro milioni di giovani, dai 14 ai 19 anni, abbandonano lo sport ogni anno. Altri quattro milioni fanno lo stesso, dai 19 ai 24. «Per evitare l'abbandono, l'Italia dovrebbe puntare sullo sport e sul suo rapporto con l'istituzione scolastica. Lo sport andrebbe vissuto come agenzia educativa al pari della scuola e della famiglia. E un primo, grande passo in avanti sarebbe l'introduzione della parola "sport" nella nostra Costituzione».