«Vedo fame in tutti»: Olimpia Milano, Bryant Dunston si racconta all'inizio della sua 18° stagione in carriera

La partita era programmata per un freddo sabato sera nel Bronx. La Fordham University doveva giocare poco prima di Natale, il 22 dicembre per l’esattezza, contro UNC-Greensboro. Una partita universitaria con un’eco modesta, a metà stagione. Quella sera a Rose Hill, una delle arene più antiche del paese, c’erano circa 2.000 persone, non di più, ad assistere a una partita che sarebbe stata storica per certi versi. Solo che allora nessuno poteva immaginarlo. I centri titolari erano Kyle Hines da una parte e Bryant Dunston dall’altra. Entrambi indossavano il numero 42. Nessuno lo sapeva all’epoca, ma era il primo incontro tra due dei giocatori più decorati degli ultimi vent’anni di basket. Solo che avevano costruito la loro leggenda lontano dal Bronx. Avrebbero costruito la loro storia qui in Europa. “Fu una bella partita, tirata, una battaglia – ricorda Bryant Dunston -. Pensai che fosse bravo. Anzi, molto bravo. Non mi aspettavo tanto da lui perché non ne avevo mai sentito parlare. Quindi un po’ rimasi sorpreso. Vidi che aveva molte delle mia stesse qualità. Tanta energia. Stoppate. Difesa. E in attacco poteva fare alcune cose, anzi tante cose diverse sul campo. E si vedeva che capiva il gioco”.
UNC-Greensboro vinse quella partita, 58-54. Kyle Hines chiuse la gara con 18 punti e 10 rimbalzi. Fu la sua 36esima doppia doppia della carriera e la 59esima partita consecutiva in doppia cifra. Anche Dunston disputò una buona partita, 10 punti e 9 rimbalzi. Fu lui a ridurre lo svantaggio a due punti nel finale della battaglia, ma non bastò. Quella sera nacque un’amicizia. Kyle Hines si trasferì in Europa poco dopo; Bryant Dunston andò in Corea del Sud. Ma era solo questione di tempo. Si sarebbero incontrati di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Ai tempi di Varese. “Quando ero a Varese, lo guardavo in TV vincere l’EuroLeague, lo fece un paio di volte. Faceva cose fantastiche. Sono stato felice di seguire le sue orme all’Olympiacos, venendo da Varese. E allo stesso tempo, l’ho cercato per avere qualche consiglio. L’ho chiamato e gli ho chiesto: “Ehi, c’è qualcosa che puoi dirmi, sull’Olympiacos o sulla città, o qualsiasi cosa che mi possa aiutare?”. Questo è un momento di chiusura del cerchio, perché quest’anno, quando sono venuto qui, è stata di nuovo la stessa cosa. Ho pensato che persino adesso, alla fine della mia carriera, continuo a chiedergli consigli”, scherza Dunston. Hanno qualità simili, sono centri sottodimensionati che sanno difendere come pochi, che prendono i rimbalzi e segnano quando serve, ma soprattutto entrambi hanno vinto molto nelle loro carriere. “Ma Kyle ha vinto non so quante EuroLeague e ha partecipato alle Final Four quante volte? Credo ne abbia giocate una decina. È stato un grande giocatore. È una delle leggende di questa lega. E quando il numero 42 verrà ritirato, sarà grazie a lui”. In estate, Kyle Hines gli ha detto: “Il 42 è il mio numero, non osare indossarlo”. Ma stava scherzando: è in buone mani.
Bryant Dunston viene dal Queens, uno dei cinque “borough” di New York. È cresciuto a LeFrak City, un’area urbana ricca di playground e con una tradizione floridissima di grandi campioni cresciuti nella zona. “Crescere come giocatore a New York è dura. C’è molta, molta concorrenza, ovviamente. Da noi, tutti giocano a basket. Sembra che a ogni angolo di strada ci sia un parco, un campo da gioco da qualche parte, e quando vai in giro per la città, devi dimostrare il tuo valore ogni volta. E devi lavorare sulle tue qualità. Ma in realtà puoi considerarlo anche un vantaggio, perché puoi giocare contro tanti buoni giocatori quando stai crescendo e questo aiuta. Alla fine, è stato divertente. A New York c’è un campo ad ogni angolo di strada. Emergere è dura, perché c’è tanta competizione. Ma al tempo stesso è un vantaggio perché affronti tanti buoni giocatori quando stai imparando. Questo aiuta”
Puoi portare un uomo lontano da New York, ma non puoi portare New York lontana dall’uomo. Quindi, Bryant Dunston – nonostante la sua lunga carriera da giramondo, osservate oggi – è ancora un newyorkese nel profondo del cuore e lasciare la Grande Mela non è qualcosa a cui aspirava davvero. Anzi, quando è arrivato il momento di scegliere il college, ha scelto di rimanere a casa. Ha frequentato Fordham, nel Bronx. “È distante trenta minuti da dove sono cresciuto, la mia famiglia poteva venire a ogni partita e se avevo bisogno di qualcosa erano lì per me. Ma al tempo stesso potevo fare la vita del campus. Vidi un programma in crescita e la possibilità di diventare parte di qualcosa di speciale”.
Dunston ha trascorso quattro stagioni a Fordham, giocando fin dal primo giorno, con 120 partite, una media di 15.3 punti e 8.3 rimbalzi a partita, 9.9 durante la sua ultima stagione. Ma non si arriva in NBA da Fordham, non se il proprio ruolo è centro, la statura è 203 centimetri e non c’è un tiro da fuori da esibire. La tappa successiva, la prima da professionista, per Bryant Dunston è stata la Corea del Sud. “Le cose andavano bene in Corea, era tutto divertente. Ma cercavo qualcosa di più competitivo. Quando ho sentito parlare dell’Eurolega, ho pensato: “Ok, voglio provare ad arrivare lì”. Conquistare l’Europa era il piano. Ma le cose non iniziarono bene. “Ho avuto un paio di stagioni difficili, soprattutto quando ero all’Aris in Grecia. Stavo ancora imparando a conoscere il basket europeo e come funzionano le cose.” Allo stesso tempo, vedeva Kyle Hines emergere, diventare una grande stella. “Quando sono arrivato a Holon, in Israele, ho deciso di scommettere su me stesso. Non guadagnavo molto, ma avevo la possibilità di mostrare il mio valore. Ho giocato bene e mi ha chiamato Varese”.
Varese è stata la svolta. Inaspettatamente, disputò una stagione incredibile, vinse la stagione regolare, raggiunse la finale di Coppa Italia e venne eliminata solo da Siena in semifinale ma dopo sette partite. Bryant Dunston era ovunque. Rimbalzi, palle rubate, stoppate, una presenza. “Per me è stato un sogno trovare un allenatore comprensivo come Vitucci. Era sempre calmo, ma allo stesso tempo se non facevamo le cose per bene, sapeva come farsi sentire. E poi, molte volte, abbiamo saputo come aggiustarci durante la partita. O l’abbiamo girata a nostro favore. Avevo anche compagni di squadra altruisti, ragazzi a cui non importava chi segnasse o riscuotesse credito. Volevano solo vincere le partite. E avevamo una grande mentalità da underdog. Abbiamo giocato contro molte squadre forti e abbiamo vinto lo stesso. Tanto”.
Dunston era il miglior centro del campionato italiano, una macchina da doppie doppie. Era il 2013 e Kyle Hines, dopo aver vinto due titoli consecutivi di EuroLeague ad Atene, lasciò Atene per Mosca. L’Olimpia lo voleva a tutti i costi, ma lui firmò per l’Olympiacos proprio per sostituire Hines, seguendone i consigli. Gradualmente, divenne uno dei migliori centri d’Europa, una presenza difensiva, un intimidatore in mezzo all’area. L’Olympiacos fu la prima squadra a credere in lui come giocatore di altissimo livello, ma l’Efes Istanbul fu la squadra in cui divenne davvero… beh, Bryant Dunston la leggenda. “Vincere a questi livelli è una combinazione chimica. Bisogna avere un po’ di fortuna e bisogna essere in salute. Tutti devono impegnarsi a lavorare ogni giorno, non solo il giorno della partita. Deve essere così in ogni allenamento. E se perdi una partita dimenticatene perché ce n’è un’altra tra due giorni”
Bryant Dunston su cosa serva per vincere a livello di EuroLeague. “Quelle dell’Efes erano squadre speciali – racconta -. E tutto è successo in modo organico. Come se fosse stato naturale fin dalla prestagione. Ricordo il primo anno. Era il secondo anno di Ataman, ma in realtà era arrivato solo da sei mesi. In quel momento aveva messo assieme il suo roster. Abbiamo inserito alcuni elementi, come Micic, Larkin. C’era Brock Motum. C’era Kruno Simon, poi è arrivato Tibor Pleiss. Quindi, avevamo tanti giocatori nuovi e si diceva, ok, ci vorrà tempo perché le cose funzionino. E noi ci chiedevamo: perché? Stavamo tanto tempo insieme. Ci fermavamo a parlare di basket fuori dal campo, dopo le partite o gli allenamenti. Non volevamo lasciare lo spogliatoio. Rimanevamo lì, a parlare, scherzare, stare. E questo si è tradotto in campo. Abbiamo avuto una stagione fantastica. Nessuno si aspettava che potessimo arrivare fino lì”.
L’Efes arrivò alle Final Four a Vitoria, sconfisse il Fenerbahce in semifinale e perse solo contro il CSKA Mosca nella finale. Kyle Hines contro Bryant Dunston. La stagione successiva, l’Efes dominava il campionato quando tutto fu fermato a causa del COVID. Si sentiva, l’Efes, in credito con la sorte, così riprese la stagione successiva e poi vinse due titoli consecutivi. Una squadra storica. “Vincere a questi livelli è una combinazione chimica. Bisogna avere un po’ di fortuna, credo, e bisogna essere in salute. Tutti devono impegnarsi a lavorare ogni giorno, non solo il giorno della partita. Deve essere così in ogni allenamento. Bisogna entrare in campo e cercare di migliorare. A volte non ci si può soffermare sui risultati. Quindi, se perdi una partita pesantemente devi semplicemente dimenticartene perché ce n’è un’altra tra due giorni. Bisogna voltare pagina rapidamente. E penso che il legame tra i giocatori sia importante. E poi anche la comunicazione con l’allenatore. Abbiamo aggiunto altri giocatori. Chris Singleton è stato fantastico per noi e ci ha aiutato a vincere. Elijah Bryant ci ha aiutato a vincere per due volte consecutive. È stato fantastico, e Rodrigue Beaubois ha fatto tante cose eccezionali. Avevamo tanti giocatori di talento in squadra. E Dogus Balbay, il capitano della squadra, ha tenuto tutti uniti, ha messo assieme i giocatori turchi e gli americani e gli altri. È stato importante. E ovviamente avevamo Coach Ataman a spingerci e motivarci quando necessario, nel modo giusto, per aiutarci e anche per darci fiducia, perché ai media diceva sempre: “Vinceremo noi”, ma poi dovevamo andare in campo e dargli ragione”.
Un altro duello tra leggende, qui con Hines all’Olimpia. Nel frattempo, Dunston ha vinto un paio di premi come miglior difensore dell’anno, aggiudicandosi il trofeo che molti ritengono dovrebbe essere intitolato a Kyle Hines. ” Difendere non è facile. Richiede sacrificio, istinto, desiderio, voglia. E devi avere in squadra giocatori che siano disposti ad aiutarti. Non puoi dare il 100% in difesa se non sai che i compagni ti proteggeranno. Nelle squadre in cui ho vinto il premio di miglior difensore dell’anno o in cui sono stato un buon difensore ho sempre avuto grande fiducia nei miei compagni. Credo che questo sia l’aspetto fondamentale. Sto entrando nella mia diciottesima stagione ma mi sento ancora benissimo. Sono grato a Dio perché sono ancora in salute. E, per quanto ne so, è stato l’amore per il basket a portarmi fino qui. Non mi pesa allenarmi. Sono entusiasta di farlo”
Bryant Dunston sulla sua longevità. Dunston ha quasi 39 anni. È il giocatore più anziano in attività in EuroLeague. Kyle Hines ha la sua stessa età. E Sergio Rodriguez. Gigi Datome ha un anno in meno di lui. Ha qualche capello grigio, ma può ancora giocare. “Sto entrando nella mia diciottesima stagione ma mi sento ancora benissimo. Sono grato a Dio perché sono ancora in salute. Sono ancora in grado di giocare. E, per quanto ne so, è stato l’amore per il basket a portarmi fino qui. Non mi pesa quando devo andare ad allenarmi. Sono entusiasta di farlo. Quando vado negli spogliatoi e vedo i ragazzi, o se facciamo una sessione video, sono emozionato nel vedere quale errore ho commesso o cosa posso fare per aiutare la squadra a migliorare. E anche quando non gioco, posso sempre trasmettere energia ai ragazzi. Mi sento parte della squadra. Questo è importante per me.”
In questo contesto, a Bryant Dunston manca solo un’esperienza NBA. “All’inizio, quando sei giovane, vorresti solo andare in NBA. Pensi che sia così che vanno le cose: devi giocare in NBA. Ma anche se ci ho provato per qualche anno, a un certo punto mi sono detto, ok, sono qui, sono in Europa. Perché non provo a fare del mio meglio in Europa? E se capita di non andare nella NBA, ok, pazienza. Ma ho sempre pensato, ok, potrei non arrivare in NBA come giocatore, ma forse in un altro ruolo sì. Quindi, non è ancora finita. Vedremo. Ma non rimpiango nulla di quello che è successo”.
Bryant Dunston sulla NBA.
“All’inizio, quando sei giovane, vorresti solo andare in NBA. Pensi che sia così che vanno le cose: devi giocare in NBA. Ma, anche se ci ho provato per qualche anno, a un certo punto mi sono detto, ok, sono qui, sono in Europa. Perché non provo a fare del mio meglio in Europa? E se capita di non andare nella NBA, ok, pazienza."
E ora c’è questa stagione a Milano: “Sono ottimista quest’anno. Vedo un grande potenziale, molte opportunità. C’è molto talento in questa squadra. Ho visto molte squadre avere talento ma non avere successo. Penso però che la nostra chimica in questo momento sia molto buona. Abbiamo tante armi e stiamo per accogliere altri giocatori dalle nazionali. Quindi sarà molto importante come ci amalgameremo. E ogni giorno dobbiamo impegnarci a lavorare sodo. Vedo fame in tutti i ragazzi: questo è davvero importante. E non solo nei giocatori, la vedo anche negli allenatori. Il nostro livello di comunicazione è buono e stiamo migliorando ogni giorno”.