Rubio, il bambino prodigio che vuole l'America e il mondo

Las Palmas - Perché è simpatico Ricky Rubio, la stella del futuro (o già del presente?) della Spagna del basket campione del mondo in carica e in procinto di tentare il bis? Perché quando, inevitabilmente visti i fatti legati alla «Roja» del calcio, arriva la domanda sul polpo Paul («Anche voi l'avete interpellato?»), risponde con l'aria furba dei suoi diciannove anni; «Non credo a certe cose: con i tentacoli non si fa canestro. Però Paul è libero di dire che rivinceremo: in tal caso, sarebbe pure simpatico...». 15 ottobre 2005, una data qualsiasi per tanti ma non per il «baloncesto» iberico: quel giorno, a 15 anni non ancora compiuti (questione di una settimana), Ricky Rubio debuttò con il Badalona nella Lega Acb, la serie A iberica. «Devo tutto ad Aito, l'allenatore che puntò su di me, imbarcandosi in una bella scommessa: ha coltivato il mio sogno e non smetterò mai di ringraziarlo. Non ero emozionato: mi sembrava una partita come un'altra, solo una in più dopo altre. Paura? Zero». Poi è arrivata una crescita impetuosa, perché il talento acerbo del ragazzo ha cominciato a raffinarsi. E se ancora non si vede l'epilogo del processo («Devo migliorare al tiro e irrobustirmi») le indicazioni di partenza non sono state tradite: Rubio si avvia a essere, nel suo ruolo, uno dei fenomeni di questo scorcio di millennio. Pepe Sanchez, play dell'Argentina olimpionica nel 2004: «E così "teak" di natura, ma è anche tanto giovane e tanto forte. Capisci che sa quel che fa: diventerà un grande». Nell'attesa, ha già vinto l'argento olimpico, un campionato europeo e, la scorsa primavera con il Barcellona che si è sostituito ai cugini-rivali di Badalona, l'Eurolega. Minnesota, nel giugno 2009, l'ha fatto diventare il primo giocatore del 1990 ad essere scelto nella Nba (primo giro, quinta chiamata assoluta nel draft), ma l'impressione è che Rickv non abbia fretta di vestire la casacca dei Timberwolves. Sta aspettando la chiamata dei Lakers, auspice Pau Gasol? La risposta è astuta e diplomatica: «Ho sempre tifato Lakers... (risata). Però posso anche decidere per Minnesota: quando sarò pronto, è chiaro, non si va di là tanto per andare. Ora preferisco crescere nel Barcellona». La tecnica del passo dopo passo è stata seguita pure nel contomo: fino ai 18 anni, la famiglia ha impedito che Rubio fosse intervistato «one to one». E ancora oggi si tende a proteggerlo come un oggetto raro e prezioso. Sono fioccati paragoni illustri: ad esempio, sembra il sosia di un fuoriclasse purtroppo già scomparso, Pete «Pistol» Maravich. Anni 70 e una Nba dal sapore magico. Graffiti che Ricky è andato a decifrare: «La mia generazione è quella di Kobe Bryant, ero troppo piccolo perfino per gustarmi Jordan. In questi casi si guarda indietro, si scruta la storia: vedendo i filmati di Bird, di Jabbar 0 di Magic Johnson, si impara. Maravich? E vero, ho una somiglianza nel viso. Come giocatore, però, era differente: tiratore e realizzatore, io sono più un organizzatore». Ma il soprannome «La Pistola» già gli tocca. Assieme a Ricky Business («Comunque io giocherei anche senza tanti soldi nel conto corrente, il gusto del basket viene prima di tutto...»), The Bully, Mozart («Ohi, ohi, quello era già Drazen Petrovic...»), Big Blond, 0 The Player «Alla fine scelgo The Player. E più in sintonia con la mia personalità». Si scopre che è semplice e fondata su principi chiave del basket («Si vince in cinque, mai da soli») e su una «testa» solida, da veterano, non da giovane che ha frantumato primati di precocità: «Se posso fare qualcosa di magico, lo faccio. Se sto perdendo, devo inventarmi qualcosa per vincere. Ho sempre voluto essere numero 1, anche quando giocavo con i miei amici: è importante sfruttare tutte le occasioni che si presentano. Mi sento un leader? Un regista deve esserlo sempre, in particolare nei momenti caldi: ho sempre gradito le responsabilità». Suo padre una volta gli portò la maglietta della Kinder nella quale giocava Manuel Ginobili. A quel punto, se mai c'erano dubbi sul suo futuro cestistico, sono svaniti. Ricky ha coltivato un percorso parallelo, abbinando buoni studi («Marketing: un giorno potrei fare il manager») ad abitudini tranquille («La pesca, gli amici, poca PlayStation») e cercando uno spazio nell'esplosione sportiva della Spagna. «Preferisco Alonso a Lorenzo e Nadal a Contador. La Spagna che cresce nello sport è una Spagna che migliora anche socialmente». Da giovane catalano approva la recente decisione della regione di sospendere le corride («Una scelta sensata») e non disdegna una riflessione intelligente sui rapporti tra la Catalunya e il governo centrale di Madrid: «La politica non mi piace. Ma certe scintille si risolvono se ciascuna delle due parti accetta di fare un passo verso l'altra», Il giocatore, invece, ha un enorme rispetto per Pau Gasol («Un esempio per tutti, anche se al Mondiale non l'avremo perché si è preso la prima estate di pausa della camera») e idee chiare sulla missione della Roja: «La vittoria dei calciatori non è una complicazione. Aggiunge pressione, d'accordo: ma in Turchia andiamo per vincere». Sarà lui il migliore del torneo? Forse no. O forse sì.
Flavio Vanetti