LBA - La contrastata serie scudetto tra Olimpia Milano e Libertas Livorno, parte 1

Fonte: olimpiamilano.com
LBA - La contrastata serie scudetto tra Olimpia Milano e Libertas Livorno, parte 1

Il 27 maggio è l’anniversario dell’ultimo scudetto vinto dall’Olimpia nell’era D’Antoni-Meneghin-Premier, con Bob McAdoo e Franco Casalini in panchina. Lo scudetto fu vinto nella memorabile battaglia di Livorno, una delle partite più famose nella storia del basket italiano.

La stagione 1988/89 fu molto diversa dalle precedenti per l’Olimpia. Pochi mesi prima, la squadra di Franco Casalini aveva vinto la Coppa dei Campioni per la seconda volta consecutiva, ma a quei tempi i campioni in carica non erano ammessi di diritto. L’Olimpia nel 1988 dopo il three-peat aveva ceduto alla Scavolini Pesaro lo scettro italiano, così nel 1988/89, pur detentrice del trofeo europeo, era stata costretta a giocare la Coppa Korac. Pesaro difese i colori dell’Italia in Coppa dei Campioni, arrivando alle Final Four dove prevalse per la prima di tre volte consecutive la Jugoplastika Spalato di Toni Kukoc.

In estate, l’Olimpia aveva confermato il blocco del titolo europeo, che già era stato parzialmente ringiovanito con gli arrivi di Piero Montecchi e Massimiliano Aldi al posto di Frano Boselli e Vittorio Gallinari. Inoltre, Riccardo Pittis era pronto per recitare un ruolo più importante rispetto all’anno precedente. Ma l’operazione di mercato più significativa riguardava il ruolo di secondo americano: confermato Bob McAdoo, la squadra aveva avuto un contributo importante da Rickey Brown, soprattutto in Coppa, ma l’assetto con tre lunghi usato saltuariamente per tutto il decennio (Ferracini-Gianelli-Meneghin; Schoene-Meneghin-Carroll; McAdoo-Meneghin-Brown) era stato messo in grande difficoltà da Pesaro nella finale del 1988. Il problema di marcare un’ala piccola mantenendo equilibrio difensivo era stato risolto da Casalini nella semifinale europea con l’Aris Salonicco grazie al sacrificio estremo del 38enne Meneghin sulle piste del tiratore Slobodan Subotic e poi lo stesso era capitato nella finale con il Maccabi contro Doron Jamchy e Ken Barlow. Ma in campionato la mossa non aveva funzionato, non su una serie al meglio delle cinque partite. Darren Daye, la stella della Scavolini, era stato un rebus insolubile per l’Olimpia. Sul mercato, Milano andò a cercare questo: l’Anti-Daye.

La scelta cadde su Billy Martin, un’ala piccola pura di due metri, uscito da Georgetown, che aveva giocato un anno a Indiana, poi anche a New York e Phoenix, aveva fatto tanto CBA (la seconda lega dell’epoca), era atletico e buon difensore. Ma non funzionò. L’Olimpia andò a caccia di un sostituto e lo trovò pescando un grande nome NBA, Albert King, newyokese, meno bravo e meno problematico del fratello maggiore Bernard, ma con tante stagioni di alto livello ai New Jersey Nets. King giocò una partita, si infortunò e dovette fermarsi obbligando il club a richiamare Martin.  Il 9 aprile 1989, Milano cadde a Pesaro 72-71, Bob McAdoo segnò 38 punti, ma recitò da solo nell’hangar di Viale dei Partigiani. Martin segnò cinque punti in 27 minuti, fece 1/7 al tiro e collezionò cinque palle perse. Non fu l’unico a sbagliare partita, ma non ne giocò altre. King rientrò per l’ultima di regular season.

Nel frattempo, dopo aver vinto otto partite su otto conquistando la semifinale di Coppa Korac, l’Olimpia perse contro Cantù nell’arco del doppio confronto finendo eliminata. A quel punto, solo lo scudetto avrebbe salvato la stagione. E solo lo scudetto probabilmente avrebbe dato ulteriore vita a quel gruppo di giocatori fantastici, rinviando la ricostruzione.

L’Olimpia finì quinta in regular season e quindi costretta a giocare nei playoff fin dagli ottavi di finale. E l’impatto fu traumatico: l’Irge Desio, promossa dalla A2, vinse a Lampugnano dopo due tempi supplementari 116-114 con 32 punti di Chris McNealy. L’Olimpia era disperata: Mike D’Antoni a 38 anni giocò 47 minuti filati. E nonostante questo, la squadra era sull’orlo dell’eliminazione. Si salvò imponendosi al Palalido, dove Desio giocava le sue partite interne in quella stagione, nonostante un altro 31 di McNealy, con 42 punti complessivi della coppia Montecchi-Premier. In gara 3, Premier ne fece altri 24 e il pericolo fu scampato. Nei quarti di finale, non ebbe problemi a eliminare Treviso 2-0. Ma la vera battaglia fu contro i campioni d’Italia di Pesaro. Fu una serie polemica, in cui ambedue le squadre vinsero la loro partita in casa e avrebbero dovuto giocarsi la bella sull’Adriatico. Ma gara 1 vinta da Pesaro fu assegnata all’Olimpia a tavolino, per il famoso giallo della monetina che colpì Dino Meneghin. Così fu 2-0 e finale scudetto contro la Libertas Livorno.

L’Enichem era allenata da Alberto Bucci, aveva una squadra bellissima anche se corta. Alessandro Fantozzi, Andrea Forti, Wendell Alexis, Stefano Tonut e Joe Binion componevano il quintetto. Ma quest’ultimo chiuse la stagione prendendo a pugno una porta a vetri a Reggio Emilia. Livorno andò avanti con Flavio Carera come centro e tenendo dalla panchina il duro americano David Wood. Quella era la squadra che contese lo scudetto all’Olimpia vincendo gara 1 a Livorno 92-79  e poi a sorpresa gara 4, 83-77, a Lampugnano impedendo la festa annunciata dello scudetto numero 24. L’Olimpia vinse gara 2, 100-81, e gara 3 in trasferta 73-69. Quindi il tricolore venne assegnato a Livorno in un sabato pomeriggio estivo, temperatura altissima, in un impianto inadeguato, pieno come un uovo, la gente accalcata lungo le linee di fondo per avere uno sbocco. In quel clima infernale, le due squadre diedero vita ad una battaglia senza esclusione di colpi. Era il 27 maggio 1989.

(1-continua)