Milano, Kyle Hines si racconta: “La mia vita è un sogno, spero sia tutto vero”

16.06.2025 18:14 di  Iacopo De Santis   vedi letture
Milano, Kyle Hines si racconta: “La mia vita è un sogno, spero sia tutto vero”

Kyle Hines lo vede dappertutto. Vede dappertutto quanto sia apprezzato. Il ruolo di mentore non ufficiale per tutti gli americani di stanza in Europa, e non solo, un giorno verrà cancellato dal tempo. Ma non è questo il giorno. Questo è un giorno in cui la presenza di Kyle Hines nella storia del basket europeo è ancora viva, avvertita, celebrata. La sua high school e il suo liceo hanno ritirato la sua maglia; l’EuroLeague l’ha incluso tra i migliori 25 giocatori dei primi 25 anni di storia; è anche membro della Hall of Fame dell’Olimpia e ovunque vada riceve solo affetto. Affetto che diventa riconoscenza quando si trova ad Atene, a Mosca oppure a Bamberg e a Veroli, i posti in cui ha lastricato una carriera leggendaria. Ha ottenuto riconoscimenti, record individuali proprio perché non li ha mai cercati. Ha sempre e solo pensato a vincere le partite. E ne ha vinte tante. “Ogni tanto – dice – devo ancora pizzicarmi e chiedermi se tutto questo è vero, se è un sogno, come sia stato possibile”. Poi sorride e ricorda la prima volta che venne visto da Antonello Riva e portato a Veroli: “Non sono sorpreso che mi abbia voluto ma che mi abbia voluto dopo avermi visto giocare”.

Kyle, eri un eroe a Mosca, giocavi per vincere il titolo tutti gli anni, e hai deciso di venire a Milano. Ci racconti com’è andata? “Ho parlato con Coach Messina, con Chacho e mi hanno spiegato bene quanto fosse speciale questo posto, l’ambiente, quanto si trovassero bene in questa città. Coach Messina mi ha illustrato la sua visione per la squadra, quello che voleva fare, quello che soprattutto voleva costruire. Ho pensato che sarebbe stato bello far parte di questo gruppo di giocatori che avrebbero cambiato la direzione del club, la sua cultura, che avrebbero potuto gettare le fondamenta di quello che l’Olimpia Milano deve rappresentare. Per me era importante contribuire alla costruzione di qualcosa di importante, dalle fondamenta. Guardando indietro penso che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Basta guardare quello che è la società, le vittorie che abbiamo ottenuto, i titoli conquistati, la presenza dei tifosi, la qualità dei giocatori che sono venuti e continuano a venire. Credo che tutto si riconduca a quello che abbiamo costruito”.

È stato difficile andare via da Mosca? “È stato molto difficile. Era un posto che io e la mia famiglia consideravamo casa, in cui abbiamo vissuto per sette anni. Ero il capitano della squadra e avevamo appena vinto l’EuroLeague. E poi eravamo in piena pandemia, c’era tanta incertezza su quello che sarebbe accaduto non solo per noi ma nel mondo in generale. È stata una scelta rischiosa in qualche modo: non sapevamo esattamente cosa avremmo trovato e cosa ci avrebbe riservato il futuro. Ma le conversazioni avute con Chacho, con Vlado Micov, con Coach Messina mi tranquillizzarono. Ero a posto con la coscienza”.

Eri già una leggenda del basket europeo; eppure, la NBA non ti ha mai dato una chance. “Quando ho provato la NBA le cose erano molto differenti. C’era questa tendenza a pensare che per giocare da 3 o da 4 o da 5 dovevi avere almeno una certa statura. In questo senso io ero un giocatore poco tradizionale, giocavo ala forte o centro ma avevo la statura di un playmaker o quasi. Penso che questo abbia spaventato un po’ di gente nella NBA. Quando sono andato alla “predraft combine”, che è l’evento più importante prima del draft, sono stato impiegato in un ruolo in cui non avevo mai giocato prima. Sono sorpreso che Antonello Riva (che era il general manager a Veroli) non se ne sia andato subito perché ero stato veramente un disastro. Ma fortunatamente ci sono state persone come lui che hanno visto qualcosa in me, che hanno capito le mie qualità e deciso che avrei potuto continuare a giocare per loro”.

Quanto è stato importante cominciare dal basso, da un club in cui potevi crescere gradualmente come Veroli? Ad esempio Keith Langford sostiene che la sua carriera sia stata possibile perché, venuto in Europa, ha potuto cominciare a Cremona. “Veroli è stata la chiave della mia carriera, la ragione della mia crescita di giocatore. Non credo che sarei qui adesso o che avrei avuto il successo che ho avuto se non fosse stato per Veroli. Sono stato fortunato perché a Veroli ho trovato un gruppo di veterani allenati da colui che oggi è ritenuto uno dei migliori coach d’Europa, Andrea Trinchieri, all’inizio della sua carriera. Avevo come compagni giocatori che erano stati in Nazionale, che avevano giocato in Serie A, che mi hanno insegnato come essere un professionista, cosa servisse per avere successo a questo livello. E sono stato anche fortunato di giocare in una città piccola, dove non c’erano tante cose da fare, così le mie giornate le passavo in palestra, a cercare di essere migliore, a prendermi un po’ di tiri extra. Tutti questi fattori combinati insieme mi hanno insegnato davvero cosa servisse per avere successo in Europa”.

Sei cosciente di questo ruolo di mentore per tanti giocatori in giro per l’Europa? “L’ho capito meglio dopo essermi ritirato. Quando stai giocando sei concentrato sulle partite, prevale il tuo spirito competitivo, ma dopo il ritiro ho parlato tanto con giocatori che sono qui in Europa, gente della NBA, ma anche agenti, tifosi e ho sentito tanti di loro dire che sono stati un esempio, per il cammino che ho intrapreso, per le cose che sono riuscito a fare. È stata una sensazione bella, è speciale sentirsi dire certe cose. Non avrei mai immaginato che qualcuno, guardando la mia carriera, avrebbe pensato che fosse un obiettivo emularla. Anche ad Abu Dhabi, alle ultime Final Four, dopo la vittoria del Fenerbahce, alcuni dei loro americani sono venuti a dirmi che avrebbero tentato di battere il mio record, di vincere altri trofei. Essere un esempio, un motivo per inseguire carriere sempre migliori, è toccante”.

Piaci a tutti, anche agli avversari, hai il rispetto di tutti. Cosa significa? “Non ho mai cercato di piacere alle persone, non è uno status che ho tentato di affermare, sono sempre stato una persona che ha trattato le altre persone nel modo in cui volevo che loro trattassero me. Ho sempre cercato di rispettare tutti, di essere gentile con le persone, ascoltarle e parlare a mia volta. Ho sempre rispettato i miei avversari. Per me questa reputazione di giocatore rispettato, ammirato è toccante. Da quando mi sono ritirato ho parlato con tanta gente, arbitri, gente che non conoscevo o non conosceva me, gente che mi ha esternato la propria ammirazione, che ha confessato di avermi seguito, di conoscere il mio percorso. Tutto questo lo considero un onore, che ancora oggi mi stupisce. Sentirsi dire certe cose è emozionante”.

Hai detto una volta che il basket ti ha portato dove non avresti mai pensato di arrivare. Non nella NBA, ma magari a poter passeggiare sulla Piazza Rossa o davanti al Partenone, al Colosseo ogni volta che ti andava. “Credo che ognuno abbia un suo percorso da fare e non sempre è quello che ti saresti aspettato. Personalmente sono riconoscente di quello che mi ha riservato il destino, le cose che ho visto, i progetti di cui sono stato parte. Essere qui oggi, pensare ai compagni che ho avuto, le persone che ho conosciuto in tutto il mondo, i ricordi che ho costruito, i posti che ho visitato e mai avrei pensato di vedere grazie al basket, di tutto questo sono enormemente riconoscente. Non ho nessun rimpianto, non cambierei nulla di quello che ho vissuto perché tutto accade per una ragione e ancora oggi sono in grado di vivere esperienze eccezionali grazie al percorso che è stato scelto per me”.

Arrivi a Milano nel 2020 e prolunghi subito la tua striscia di partecipazioni alle Final Four. L’Olimpia non le giocava dal 1992. Quando ti sei accorto che ti trovavi in una squadra speciale? “Durante la prima settimana di preparazione. Avevamo giocatori che avevano già vinto, ma soprattutto eravamo tutti arrivati all’Olimpia Milano per un motivo. Tutti eravamo concentrati sul raggiungere un solo obiettivo e questo rende sempre le cose più facili. Guardandomi attorno, vedevo Malcolm Delaney e Sergio Rodriguez, Gigi Datome e Vlado Micov: eravamo tutti lì per vincere dei titoli e riportare l’Olimpia dove non era stata per tanto tempo. Quando ho realizzato cosa avevamo in quella prima settimana, ho capito che avremmo avuto successo. Poi non sai mai cosa significhi avere successo ma sapevo che lo avremmo avuto come gruppo”.

Le Final Four l’Olimpia le ha conquistate battendo il Bayern in cinque gare. E tutti ricordano la tua stoppata risolutiva su Wade Baldwin. “Tutto accade per una ragione, l’ho già detto. Penso che in quella Gara 5 fossimo avanti di 10-12 punti a meno di un minuto dalla fine. Pensavamo di avere la vittoria in pugno, ma con il Bayern Monaco tutte le partite si risolvevano alla fine e ad un certo punto è stata coma una valanga incontrollabile. Ma uscendo da quel time-out sapevo che avrei dovuto fare una giocata decisiva anche se non sapevo quale. Un rimbalzo, una stoppata o una palla rubata. Avevamo lavorato duramente per tutto l’anno per arrivare a quel punto. Sapevo che l’ultimo tiro l’avrebbe preso Wade Baldwin, perché so chi è, la sua personalità, il talento. Ho cercato di leggere e capire dove voleva andare con la sua penetrazione. Grazie a Dio, non ho fatto fallo e sono riuscito a mettere le mani sulla palla e vincere la palla a due”.

Dopo le Final Four, c’è stata l’inaspettato 0-4 con Bologna in finale. "Dopo quella stagione perdere 4-0 la finale scudetto è stato ingiusto. Dentro di noi eravamo consci di essere la squadra migliore, ma non riuscimmo a giocare insieme, a trovare un modo per vincere le partite a prescindere dalle circostanze. Ma quell’esperienza spiacevole ci ha impartito una lezione, a tutta la squadra, forse all’intero club. Bisogna sempre continuare a giocare, sapere cosa serve fare per vincere un titolo soprattutto contro una squadra competitiva come Bologna. Qualcuno di noi giocava la finale per la prima volta e forse, forse, abbiamo ritenuto che la vittoria fosse scontata. Ma quello che personalmente ho imparato è che vincere non è scontato e per vincere devi – ogni giorno, ogni singola partita – fare quello che ti ha portato in quella posizione. Quella sconfitta pesante ci ha fatto diventare una squadra migliore, un gruppo di persone migliori che poi hanno vinto tre scudetti di fila”.

Per due anni hai giocato con Chacho Rodriguez anche a Milano. “Tra me e Chacho c’è un legame particolare che è stato tale fin dal primo giorno, persino quando lui era al Real Madrid e io in altre squadre. C’era quel feeling, indescrivibile, che ci univa e ci portava a pensare che sarebbe stato bello giocare insieme. Quando c’è stata questa opportunità, al CSKA, ne abbiamo approfittato subito. Con lui è più facile giocare. Poi con il tempo abbiamo sviluppato questo rapporto anche fuori del campo. Le nostre famiglie fanno le stesse cose, i nostri figli hanno la stessa età. E per quanto sia incredibile come giocatore, lo sanno tutti, fuori del campo è addirittura migliore. Lui è stato una delle ragioni per cui sono venuto qui. Volevo ricostruire quel legame, visto il successo e quanto ci eravamo divertiti insieme in Russia. È un rapporto speciale, un’amicizia speciale, lui è un mio amico e lo sarà per il resto della mia vita”.

Molti pensano che l’anno seguente le Final Four, il 2021/22, l’Olimpia fosse ancora più forte. Non c’erano più Punter, LeDay Micov, ma c’erano Melli, Grant, per un po’ Mitoglou. “Siamo stati quasi sempre al vertice della classifica, soprattutto all’inizio. Avevamo tutto quello che ci serviva per vincere. Siamo arrivati ad un paio di infortuni e un paio di possessi dal tornare alle Final Four. Siamo stati eliminati dalla squadra che poi ha vinto per il secondo anno consecutivo. In quella serie con l’Efes abbiamo giocato bene, ma non siamo stati abbastanza fortunati da vincere. Nel basket queste cose succedono, ma di sicuro – se guardo indietro – quella squadra, il suo roster, da cima a fondo, era probabilmente la squadra con più talento che abbiamo avuto qui e avrebbe avuto tutto per raggiungere ancora le Final Four. Poi sarebbe potuto accadere”.

Dopo sono arrivati due scudetti. Il secondo è stato quello della stella, di una finale vinta in sette partite contro Bologna. “Una serie di sette partite è come giocare una nuova stagione daccapo, soprattutto perché Bologna è una squadra contro la quale eravamo abituati a giocare tante volte nel corso della stagione. E quando arrivi alla settima partita hai lividi dappertutto, sei acciaccato e vuoi solo arrivare in fondo. Per fortuna, noi a quel punto avevamo l’esperienza di sapere come chiudere una serie. Probabilmente lo 0-4 ci ha fatto capire come va interpretata una serie di sette partite, riconoscendo che ogni partita è importante e va combattuta. Sono passati anni e ho ancora la sensazione di aver appena recuperato da una serie così dura”.

In definitiva, sono stati anni positivi quelli di Milano? “Soprattutto se guardi a dove eravamo quando abbiamo cominciato questo progetto e dove siamo adesso come squadra, come club, al modo in cui l’Olimpia e Milano sono percepite in tutta Europa, a come un club con questa storia sia in grado di continuare a vincere, a convincere giocatori importanti a venire qui. Se parli ai giocatori in giro per l’Europa, tanti vorrebbero venire qui. Tutto questo è esattamente ciò che volevamo fare, gettare le basi, costruire le fondamenta di un progetto lungo. Le vittorie sono state il prodotto, una conseguenza di quello che volevamo fare, quello che voleva Coach Messina, che voleva Chacho, che volevamo io e Gigi. Aiutare un club storico, speciale, a continuare a vincere anche nel futuro. Sono riconoscente di essere stato uno dei giocatori che hanno indossato questa maglia, la maglia di uno dei club con più storia nel continente. Far parte di una lista di giocatori che hanno avuto un impatto significa tantissimo per me”.

Nonostante l’età e la lunga carriera non hai saltato nessuna partita di EuroLeague per infortunio. Sei un Ironman? O sai giocare oltre il dolore? “Un po’ sono Ironman e un po’ sopporto il dolore. Scherzi a parte, sono stato fortunato perché non ho mai avuto infortuni gravi, che mi abbiano impedito di giocare. Ma devo ringraziare lo staff dei fisioterapisti, che mi hanno sempre aiutato a raggiungere la condizione necessaria per giocare tutti i giorni. È stato il frutto di un grande lavoro collettivo, dell’impegno di tutti, ma non solo con me anche con gli altri giocatori dell’Olimpia”.

Il tuo liceo ha ritirato la tua maglia, così la tua università, qui sei nella Hall of Fame, sei tra i 25 giocatori migliori dei 25 anni di vita dell’EuroLeague. Cosa significano questi riconoscimenti? “Sto ancora vivendo un sogno, ogni tanto devo darmi un pizzicotto per capire se sto sognando. Qualche volta non sembra vero. Non ho mai avuto obiettivi individuali, non ho mai cercato dei premi, per me è sempre stata una questione di vincere le partite, di vincere campionati, trofei e riconoscere cosa servisse alla squadra per vincere. Sono grato di essere riconosciuto per quello che ho fatto, soprattutto lo sono diventato alla fine della mia carriera, ma ripeto in certi momenti mi chiedo ancora se tutto questo sia vero”.