Riminucci, il Simmenthal e il trionfo di 50 anni fa: 'L'Italia scoprì il basket'

Fonte: andrea tosi
Riminucci, il Simmenthal e il trionfo di 50 anni fa: 'L'Italia scoprì il basket'

Cade oggi un importante anniversario del basket, di quelli che si tramandando di generazione in generazione tra i tifosi e gli appassionati. È il Cinquantenario della prima Coppa dei Campioni nonché primo trofeo europeo conquistato da un club italiano. Il 1° aprile 1966 l'Olimpia Milano, targata Simmenthal, conquistò la coppa più prestigiosa del nostro continente battendo in finale a Bologna lo Slavia Praga per 77-72. Era la Simmenthal più forte di sempre, guidata in panchina dal mitico Cesare Rubini, e in campo ricca di campioni i cui nomi ancora oggi evocano la storia di questo sport: Gianfranco Pieri, Nane Vianello, Sandro Riminucci, Skip Thoren, Giulio Iellini, Massimo Masini e il leggendario Bill Bradley che a Milano faceva il part time-player, dividendosi tra gli studi di Oxford e le partite di coppa, prima di volare in Nba per vincere due titoli con i New York Knicks. Parliamo di quella impresa con Sandro Riminucci, classe 1935, pesarese di Tavoleto, primatista italiano di scudetti con una sola maglia (nove), quella dell'Olimpia, a pari merito col «gemello» Pieri, e a lungo detentore del record di punti in una partita in Serie A (77) battuto 32 anni dopo da un certo Carlton Myers. «Quest'anno è il mio triplete personale in fatto di ricorrenze -sorride l'Angelo biondo, come veniva soprannominato per la sue doti atletiche -: 80 anni di Milano, 70 di Pesaro, infine i 50 anni della Coppa Campioni. Purtroppo non sono riuscito a venire alla festa dell'Olimpia per un problema fisico, ma sono già stato  invitato il 17 aprile al Forum per Milano-Pesaro, la partita che rappresenta la mia carriera perché si affrontano i club che mi hanno cresciuto e lanciato». Riminucci, qual è il ricordo più intenso di quella finale del 1966? «L'invasione di campo dei nostri tifosi al fischio finale. Giocavamo a Bologna, nell'odierno PalaDozza, davanti a 8mila spettatori di cui 3mila milanesi. Tutti si gettarono su di noi per portarci in trionfo, non solo i tifosi del Simmenthal. Anche tantissimi bolognesi, perlopiù virtussini e quindi nostri rivali in campionato, ci festeggiarono. Fu come un'esplosione di unità nazionale. Oggi invece la tendenza è tifare contro a prescindere». Quale fu il significato di quel successo? «Allora il basket aveva un seguito molto limitato sui media. La nostra vittoria in Europa sdoganò i canestri nelle case di tutti gli italiani. In un certo senso fummo dei pionieri anche se la nostra vita è rimasta quella di sempre. Nei miei 14 anni all'Olimpia sono diventato ricco dentro, grazie alla fama sportiva cresciuta nei grandi appuntamenti internazionali e agli studi bocconiani in Economia, ma non nel portafoglio». Il tabellino di quella finale recita: Vianello e Thoren 21 punti, Bradley 14, Riminucci 10. Quattro uomini in doppia cifra. La vostra forza era il collettivo? «Eravamo una squadra nel vero senso della parola. In quella partita, Vianello e Thoren, non solo per i punti segnati, furono decisivi. Ma ricordo bene la prova di grande intelligenza di Bradley che, marcato stretto anche da tre avversari, giocò per i compagni e difese alla morte». Il capitano era Pieri. Ma poteva essere lei. È un rimpianto? «No, Gianfranco è stato il compagno al quale ero più legato. Arrivò a Milano un anno prima di me, i suoi gradi derivavano dalla leadership e dall'anzianità di servizio. Ma Rubini ci diceva sempre che in campo non esisteva mai un giocatore più importante, ognuno poteva essere il faro della squadra». Quella coppa è il suo trofeo più bello? «Nel mio podio ideale metto sul gradino più alto il quarto posto all'Olimpiade di Roma 1960 conquistato con la Nazionale. Poi lo scudetto Juniores con Pesaro che mi lanciò in maglia azzurra, chiamato dal c,t, Tracuzzi all'età di 17 anni prima ancora di esordire in Serie A. E al terzo la Coppa Campioni che per me è stata la ciliegina sulla torta di una carriera sempre in prima linea». Ha vinto la coppa a 31 anni, temeva di non farcela più? «È arrivata al momento giusto dopo averla sfiorata due volte. Nel 1964 venimmo eliminati da Tbilisi, perdendo in casa dopo avere vinto, per la prima volta in assoluto, nella vecchia Unione Sovietica. Fu una beffa atroce: +5 là, -6 a Milano. L'anno dopo ci eliminò il Real dopo una corrida a Madrid in cui venimmo tartassati dagli arbitri e dagli spagnoli tanto che alla fine il grande Emiliano, super play e capitano del Real, ci fece le sue scuse». Come vede l'Olimpia di oggi? «È la più forte in Italia, ma non dimostra lo spirito che aveva la mia Simmenthal. Vedo l'EA7 giocare bene a sprazzi. Domina e poi si rilassa. Noi, sul +20 giocavamo per salire a +30, senza badare a gestire. Ecco, ci vorrebbe un po' della nostra cattiveria». In Europa IEA7 quest'anno ha fallito due volte. Se lo aspettava? «Non mi ha sorpreso: in Eurolega salta subito all'occhio la differenza di fisicità e aggressività tra i top club e le squadre italiane. Per tornare a vin-1 cere la coppa, Milano deve essere più forte e determinata». C'è un giocatore in cui si rivede? «Oggi no perché il basket rispetto ai miei tempi è molto cambiato: quasi tutti i giocatori sono specializzati. Venti anni fa mi rivedevo in Antonello Riva: energico e atletico nel volare a canestro».