L’Olimpia senza playoff Euroleague e quella del bis in Coppa dei Campioni

07.04.2019 08:30 di Paolo Corio Twitter:    vedi letture
Micov marcato da Simon
Micov marcato da Simon
© foto di euroleague.net

2 aprile 1987, Losanna: l’Olimpia Milano sale sul trono d’Europa sollevando la Coppa dei Campioni a 21 anni di distanza dal suo primo trionfo. 7 aprile 1988, Gand: il torneo torna alla formula della Final Four e l’Olimpia Milano firma uno storico bis dopo aver superato in semifinale l’Aris Salonicco e quindi il Maccabi Tel Aviv come già nella finale dell’edizione precedente. 4 aprile 2019, Istanbul: l’Olimpia Milano perde la sua 16a partita di Euroleague sul campo dell'Efes e con essa il treno dei playoff, sul quale è salita una sola volta nelle sue 13 recenti partecipazioni, ovvero nella stagione 2013-2014 con Final Four programmate al Forum ed eliminazione da parte niente meno che del Maccabi Tel Aviv. Perché la storia si ripete, magari a rovescio, anche nello sport. E se ci si prende la briga di andarsela a riesaminare, anche nello sport – come dicevano i latini – può essere maestra di vita. Probabilmente anche di vittorie o comunque del raggiungimento del miglior traguardo possibile (perché non dimentichiamoci che anche quell’Olimpia perse tanto, ma arrivando sempre o quasi a giocarsela fino in fondo). 

Altro gioco, vecchi princìpi
Certo il basket di oggi è tutt’altra cosa rispetto alla pallacanestro di allora, ma a dispetto di tutte le evoluzioni del gioco (a partire da quella atletica) e di qualsiasi regola imposta dallo sport-business, ancora una volta quello che è mancato all’Armani è quello che invece avevano la Tracer del 1987, l’ultima dell’epoca Dan Peterson, e quella del 1988, guidata in panchina dal fino ad allora “vice” per antonomasia Franco Casalini nel segno di una continuità di princìpi, sul parquet e fuori, che anche dopo tre decenni fanno la differenza. E che ci siamo divertiti a ritrovare scavando nella memoria e, quando questa non ci soccorreva appieno, sfogliando le pagine intrise di interessanti statistiche del libro Olimpia, un sogno sul parquet dell’ottimo Sandro Pugliese (al quale va un grazie per l’indiretto aiuto).

Difesa: di Gallinari ce n’era uno… e tutti gli altri lo imitavano. Per quanto più in alto si arrivi a saltare e da più lontano si riesca a tirare, il primo postulato del basket è sempre quello: l’attacco riempie i palazzetti, la difesa riempie la bacheca dei trofei. E la difesa di quell’Olimpia per anni ha avuto la faccia e i gomiti ossuti di Vittorio Gallinari, papà di Danilo, che in campo ci stava da titolare sempre e solo per quello. Lo certifica la media di 1,79 punti in 349 partite, ma anche rivedere su youtube la finale di Losanna, in cui neutralizzò alla sua maniera il bomber israeliano Doron Jamchi. E l’anno successivo, quando all’addio di Dan Peterson si associò il suo passaggio a Pavia, quello “spirito Olimpia” incarnato dal primo “Gallo” ancora contagiava chiunque vestisse la maglia biancorossa, che si chiamasse McAdoo o… Aldi, che di Gallinari prese il posto nel roster. Quello “spirito Olimpia” con cui questa stagione la partita al Forum con Gran Canaria sarebbe potuta andare diversamente: una sola, sì, ma che se vinta sarebbe risultata abbastanza per entrare nei playoff e raggiungere quello che era stato dichiarato come obiettivo di stagione. Se poi siete incontentabili (come lo sarebbero un Obradovic o un Jasikevicius), potete aggiungerci o mettere in alternativa la sfida interna con il Bayern Monaco, altra sconfitta risultata in fondo letale.

Leader: un Mike non vale l’altro. Estensione sul parquet di Peterson prima e di Casalini poi, Mike D’antoni era non solo il play, ma il leader assoluto della squadra. Meglio: al servizio della squadra, “capace di segnare 30 punti quando c’è bisogno, come di non fare neanche un tiro se la squadra gira lo stesso”, come scrive Sandro Pugliese nel già citato libro. Definizione da ritrascrivere pari pari perché perfetta, completa. Definizione che indica chi è e cosa deve fare un leader. Quello che è mancato a Istanbul, quello che curiosamente a lunghi tratti ha fatto vedere Kruno Simon nella stessa serata, ma in maglia avversaria: dopo aver guidato la sua nazionale a beffare l’Italia al pre-olimpico di Torino, il croato ha firmato la classica vendetta dell’ex contro l’Olimpia. In cui il Mike di oggi è risultato sì leader assoluto in Euroleague, ma a titolo individuale per punti segnati (19,8 di media) e indice di valutazione (20,2): numeri importanti, certo, ma che non possono prescindere dalla considerazione che in questo gioco (come ha ormai imparato anche un altro James al di là dell’Oceano) nessuno vince da solo. Ancora di più se cerca di risolvere da solo le partite.

Italiani: puntarci, ma per davvero. Con due stranieri (per l’Olimpia sempre americani) e stop, negli anni Ottanta non si poteva proprio prescindere dal contributo degli italiani. Ma quella su Roberto Premier, debordante (anche sulla bilancia) talento in arrivo da Gorizia, fu comunque una scommessa anche per la Milano d’allora. Che decise però di puntarci senza “se” e senza “ma”: preso dalla provincia per mettere punti a referto, fu subito invitato anche nella grande metropoli a prendersi i tiri che doveva senza badare al resto. Più che un dare fiducia, un’immissione di fiducia, che mixandosi al talento e all’impegno finisce spesso per generare il campione: arrivato nella stagione 1981-1982, quello della conquista del 20° titolo e quindi della seconda stella, Premier con 23 punti fu il top-scorer della finale 1987 e a dispetto dei tabellini nella Final Four di Gand (2 punti con l’Aris, 3 con il Maccabi) diede il suo contributo anche nella stagione successiva, in cui l’Olimpia aveva iniziato a investire pesantemente su un altro prospetto italiano… di nome Riccardo Pittis. Minutaggi imposti dai regolamenti ma non solo, minutaggi assai diversi di quelli di Fontecchio e Della Valle. E del non più giovane, ma non per questo meno considerabile Cinciarini

Paolo Corio