Dino Meneghin e gli anni dell'Olimpia

Dino Meneghin e gli anni dell'Olimpia

Uno dei più grandi protagonisti del basket italiano e della storia dell'Olimpia Milano, prima da avversario poi da micidiale pezzo da novanta delle "scarpette rosse", Dino Meneghin, ricorda tanti aneddoti per la penna di Andrea Barocci del Corriere dello Sport. Ecco un estratto:

Varese "Piegarla significava conquistare subito mezzo scudetto, visto che allora non c'erano i play off. E poi c'era la rivalità tra due città che distano pochi chilometri. Una sfida sempre molto sentita, specie dai tifosi"

Avversari in maglia Olimpia. "Non ho mai odiato nessuno. Diciamo il più pericoloso. Prima c'era Massimo Masini che era il prototipo del pivot moderno: bravo a tirare da fuori, ad andare in uno contro uno e in contropiede. Poi Arthur Kenney, perché era uno che non voleva mai perdere, giocava sempre con un'animosità particolare. Una volta mi scontrai con lui, una mini zuffa: però non ci siamo colpiti neppure una volta, sembravamo due ubriachi che tentavano di menarsi... Da qualche tempo Arthur torna ogni anno a Milano, parla ancora benissimo l'italiano, ci scambiamo email durante l'anno: siamo amici, tra noi c'è un grandissimo rispetto»

Ecco l'Olimpia. "Varese aveva deciso di svecchiare, e io avevo 30 anni... Avevo l'opportunità di scegliere tra Venezia e Milano: scelsi l'Olimpia perché era una squadra storica, vicino a casa. E poi quando ho incontrato il coach Peterson e il g.m. Cappellari che mi hanno spiegato quali erano gli obiettivi, ovvero vincere, la scelta è stata facile. Di certo non è stata vissuta bene né dall'una né dall'altra parte delle tifoserie. A Varese mi davano del traditore, dell'impiegato, perché andavo a giocare con gli avversari storici. E a Milano appena arrivato hanno iniziato a dire che ero troppo vecchio: poi sfortuna ha voluto che, appena arrivato, mi sono rotto il menisco, sono stato un mese fuori e tutti a commentare "ecco, ce lo hanno dato già rotto" I primi mesi sono stati molto intensi, ma la società e i giocatori mi sono stati vicini ed è stato più facile superare qualsiasi problema. Alla fine dell'anno abbiamo pure vinto il campionato...".

I favolosi anni '80. "Giocare per un grande club, ben organizzato, ti dà un senso di sicurezza, quasi di protezione: qualsiasi cosa di negativo possa accadere, sapevi di avere una spalla su cui appoggiarti. Le vittorie le ho vissute con grande intensità, ma subito dopo ilpensiero di tutti noi andava alla competizione successiva da conquistare: era, insomma, un continuo autoalimentare la voglia di successi".

Il coach. "Dan Peterson. Ce ne sarebbero tanti, apartire dalla famiglia Gabetti, ma Dan è Dan: devi conoscerlo di persona, frequentarlo, solo allora capisci la sua mentalità. E' l'unica persona che nel basket ha saputo essere anche "trasversale" al nostro sport. Ha saputo crearsi tante alternative fuori dalla pallacanestro. Una volta, anni fa, tornando a casa tardi la sera, l'ho sentito alla radio fare le cronache di corse ippiche dall'ippodromo di Firenze!".