Luigi Datome: "Sono qui per dimostrare di essere un giocatore da NBA"

Fonte: Corriere dello Sport
Luigi Datome: "Sono qui per dimostrare di essere un giocatore da NBA"

Mega intervista a Luigi Datome dopo gli exploit con i Boston Celtics. Il giocatore sardo che tanti bei ricordi ha lasciato dovunque ha giocato, in primis Roma, chiacchiera amabilmente sul Corriere dello Sport con Andrea Barocci.

Brian Scalabrine, ex amatissimo panchinaro dei Celtics ed oggi commentatore TV, non smette di magnificare quel fenomeno del mio amico italiano». I tifosi di Boston sono impazziti e da due giorni non fanno che parlare di quel numero 70 che, con barba e capelli lunghi, sembra il ritratto di Gesù. Su internet spopola ogni tipo di fotomontaggio di Luigi, il fratello del mitico SuperMario della Nintendo, con il volto di Gigi. E' proprio vero, la NBA è incomprensibile.

Per un anno e mezzo, grazie ai pessimi uffici di Detroit, il capitano della Nazionale, è rimasto incatenato alla panchina. Poi, con il suo trasferimento a Boston, è esplosa la Datome-mania. Prima 10 punti in 9' a Orlando, poi il botto a Miami: 13 punti (5/7 da 2 e 1/2 da tre), 3 rimbalzi, 3° miglior marcatore dei verdi ed clamoroso successo. Nelle ultime due partite, 11.5 p. di media con il 75% da tre! Datome, come ci si sente ad essere considerato l'uomo del giorno a Boston?

«Mi rendo conto che questo clamore non è per quello che ho fatto, ma per quello che non ho fatto prima. Sono considerato una grandissima sorpresa. I tifosi mi consideravano come uno che non aveva mai giocato, ed ora si sono accorti che so fare cose positive. Insomma, sono strafelice: per essermi fatto trovare pronto e perché coach Brad Stevens mi ha dato questa occasione.»

Cosa le aveva promesso Stevens?

« Nulla. Ma mi ha accolto bene, abbiamo parlato e mi ha detto che sarebbe arrivato il mio momento. E' un tipo che cerca di avere un buon rapporto con tutti, ha sempre tempo per scambiare una battuta.»

Era quasi sconosciuto ai fan, ma anche ai suoi nuovi compagni: loro come l'hanno accolta?

«Benissimo. A canadese Kelly Olynyk si ricordava di me perché ha giocato contro l'Italia. E Turner è stato subito simpatico. Mi ha telefonato chiedendomi se volevo uscire a cena con lui e qualche suo amico. Queste, vi assicuro, non sono cose così scontate nella NBA.»

Tiri fuori il rospo: per quale maledetta ragione ai Pistosn non la mettevano mai sul parquet?

«L'anno scorso aveva un senso: la vecchia dirigenza voleva valutarmi. Poi però i dirigenti che sono subentrati mi hanno fatto sapere che non avrei fatto parte delle rotazioni. Fortunatamente a Boston ho avuto le opportunità che ai Pistons non mi hanno mai dato. In tanti mi hanno chiesto perché non ho mai parlato con il tecnico Van Gundy non avrebbe avuto senso, non mi avrebbero fatto giocare lo stesso. Ma chissà, magari a fine stagione andrò a chiederglielo...»

Altri al suo posto avrebbero alzato bandiera bianca e sarebbero già tornati in Europa. Lei ha resistito.

«Non mi è mai passato per la testa di mollare. Sono qui per dimostrare di essere un giocatore da NBA. Quando non vedevo nemmeno una luce in fondo al tunnel buio, per la prima volta in vita mia ho preso il basket come un lavoro. E mi sono messo a sfacchinare duro, tutti i giorni e più di tutti. Un amico mi ha detto: quando spacchi una pietra, il merito non è del centesimo colpo, ma dei 999 precedenti. Ora fisicamente mi sento più forte, ho messo su 7-9 kg ed è più difficile spostarmi sotto canestro. Inoltre sono più rapido a prendere le decisioni, se tirare, passare o penetrare. Dal punto di vista personale periodo è stato un bagno di umiltà importante: mi ha fatto bene passare da Roma, dove ogni cosa mi era dovuta, ad esser l'ultima ruota del carro.»

Come è stata l'accoglienza della comunità italiana di Boston?

«Il console mi ha telefonato, e in tantissimi mi hanno scritto. Durante il riscaldamento della prima partita che ho giocato in casa, ho visto una signora seduta nella prima fila dietro la panchina che si è alzata e mi ha dato il benvenuto. Sapeva che avevo giocato nella Capitale. Sarà una gran tifosa, ho pensato. Invece, subìto dopo, ha aggiunto: "Sai, mio figlio è proprietario della Roma calcio." Era la mamma di Pallotta, che ho già conosciuto quando giocavo alla Virtus. Alla fine, su consiglio di un'amica, sono andato anche al ristorante italiano della sorella del n. 1 della Roma.»

A Milano dicono che lei al termine della stagione finirà all'Armani: è vero?

«Ho ancora 20 gare qui a Boston per dare il massimo. Poi la scelta la farò in base alle offerte che mi arriveranno, spero da Boston e dalla NBA. Certo, sarebbe bello poter decidere tra più offerie, anche dall'Europa. Ma non ho firmato alcun precontratto: non avrebbe avuto senso.»