A Roma il "Basket Day" con la nazionale di Nantes, la più forte di sempre

Fonte: www.marioarceri.it
La Nazionale del 1983
La Nazionale del 1983
© foto di Foto FIP

Nel Salone d'Onore del Coni, al Foro Italico, festeggeremo il "Basket Day". Servirà a celebrare l'ingresso nella Hall of Fame italiana della cosiddetta classe 2013 e cioè Carlo Caglieris, Renato Villalta, Catarina Pollini, Valerio Bianchini, Sandro Galleani, Gino Burcovich (alla memoria) e la squadra nazionale che nel 1983, trent'anni fa, regalò per la prima volta all'Italia il titolo europeo. Nell'occasione, verranno premiate anche le squadre Under 20 che hanno vinto con i ragazzi l'oro e con le ragazze l'argento europeo. Da ricordare, anche, l'ottimo comportamento di entrambe le squadre Under 16 che si sono fermate alla soglia del podio, ma hanno conquistato la qualificazione per i campionati del mondo di categoria del 2014.

Erano anni che non si potevano celebrare tante cose tutte assieme, e bene ha fatto Gianni Petrucci a cogliere questa occasione per far vivere, in tempi di depressione profonda, una giornata di festa anche al basket italiano...

Nella Hall of Fame, con grave ritardo, ma finalmente, entra Valerio Bianchini, uno che ha vinto tre scudetti con tre squadre diverse e due Coppe dei Campioni con due squadre diverse, oltre a tanti altri trofei europei e intercontinentali, guidando anche la Nazionale italiana a un sesto posto mondiale e a un quinto europeo. Avrebbe meritato questo riconoscimento assai più e assai prima di altri coach: domani gli verrà infine resa giustizia premiando un'incredibile carriera e una personalità e un'intelligenza critica probabilmente troppo forti per essere gradite a tutti.

Tuttavia, il clou della giornata sarà rappresentato dalla Nazionale dell'83 che torna a riunirsi in questa specialissima occasione. Vanno ricordati uno per uno: Carlo Caglieris, Alberto Tonut, Marco Bonamico, Enrico Gilardi, Roberto Brunamonti, Ario Costa, Renato Villalta, Dino Meneghin, Antonello Riva, Renzo Vecchiato, Pierluigi Marzorati, Romeo Sacchetti, allenati da Sandro Gamba assistito da Riccardo Sales e Santi Puglisi, con lo staff sanitario (Dima Ferrantelli e Alessandro Galleani) e gli accompagnatori (Enrico Vinci, Gianni Petrucci, Cesare Rubini, Duilio De Gobbis, Massimo Blasetti e, a Limoges, Claudio Silvestri e Pietro Petrazzini). Alcuni di loro (Enrico Vinci, Riccardo Sales, Rubini, De Gobbis) ci hanno lasciato, ma resta indelebile il ricordo di personaggi che hanno firmato l'epoca più bella del basket italiano.

Non si tratta di una semplice rievocazione, che tra l'altro giunge a sei mesi dall'esatta ricorrenza dei trent'anni, ma della riproposizione della memoria di un'impresa senza precedenti per il basket italiano, realizzata nel suo momento più felice, ad opera di una generazione di giocatori, probabilmente la più forte di sempre per la nostra pallacanestro.

Quella Nazionale veniva dall'argento olimpico conquistato a Mosca tre anni prima e, due anni più tardi, avrebbe vinto il bronzo europeo a Stoccarda. In mezzo, nel 1984, i Giochi di Los Angeles chiusi al quinto posto, e con l'addio alla maglia azzurra di Meneghin, per la partita persa contro una Jugoslavia rissosa, provocatoria, tutelata dall'arbitro brasiliano: doveva vendicare lo "strappo" dell'anno precedente, quando, a Limoges, l'Italia le aveva inferto una durissima lezione sul campo per tecnica, carattere e capacità di reazione.

L'oro di Nantes, che a maggio ho raccontato in queste pagine rievocando le vicende del viaggio azzurro giorno dopo giorno, trent'anni dopo, è fondamentale perché rappresentò allora lo sdoganamento definitivo della pallacanestro, la sua affermazione come disciplina nazionale, apprezzata da un numero crescente in maniera esponenziale di appassionati. Era stato preceduto di poco più di un mese dall'epilogo del campionato (allora gli Europei seguivano l'attività nazionale proponendo giocatori rodati dalla stagione agonistica appena conclusa) che aveva offerto la rivoluzionaria novità di Roma campione d'Italia a spese dell'Olimpia Milano di Peterson, Meneghin, D'Antoni e McAdoo che peraltro avrebbe poi caratterizzato le stagioni successive.

Allo scudetto del Banco di Roma, di Bianchini e Di Fonzo, di Gilardi, Polesello, Wright, Kea, Hughes, Sbarra, Castellano, Solfrini, Delle Vedove, Prosperi, Sacripanti, Scarnati, Grimaldi, Valente, aveva fatto seguito quello della Roma di Liedholm e Falcao nel calcio, a dimostrazione che qualcosa era cambiato nella considerazione e negli equilibri dello sport anche nella Capitale. Una ventata di novità, dunque, alla quale il Banco di Roma, al contrario della Roma Calcio, seppe dare seguito vincendo l'anno seguente la Coppa dei Campioni, e che, nelle settimane immediatamente successive alla conclusione del campionato, portò sicuramente un clima nuovo e un coraggio diverso anche in Nazionale.

Gilardi fu uno degli uomini chiave, determinante nella partita con la Jugoslavia che venne poi ricordata soprattutto per la rissa scatenata da Kicanovic più che per il perfetto modo in cui Gamba l'aveva tatticamente impostata e la squadra interpretata scatenando la furia balcanica (tranne Cosic, Dalipagic e il coach Giergia) dettata soprattutto dall'impotenza nel rovesciare la situazione.

I corsi e i ricorsi storici esistono: l'Italia vinse l'oro di Nantes battendo in finale la Spagna, così come conquistò il suo secondo oro, sedici anni più tardi, nel 1999, sempre in Francia, a Parigi, e di nuovo contro gli spagnoli. Dopo Nantes arrivò quinta ai Giochi di Los Angeles per via di quella sciagurata sconfitta con la Jugoslavia quando era considerata, per l'assenza dell'Urss che aveva boicottato i Giochi, come la favorita per l'argento alle spalle degli Usa di Michael Jordan, andato invece alla Spagna. Dopo Parigi, favorita anche in quest'occasione per l'argento, chiuse al quinto posto i Giochi di Sydney perdendo nei quarti con l'Australia una partita già vinta e capovolta da Andrew Gaze: seconda, alle spalle degli Usa, giunse la Francia che l'Italia aveva già battuto (come la Lituania, bronzo) nella fase di qualificazione.

L'oro di Nantes fu dunque importante per le circostanze in cui arrivò, ma soprattutto perché concludeva e premiava il lungo cammino battuto dalla pallacanestro italiana che era stata alle origini protagonista del movimento europeo per poi subìre lo strapotere atletico e numerico delle squadre dell'Est. Aveva cominciato ad affrancarsi a metà degli anni sessanta con la Coppa dei Campioni vinta dal Simmenthal di Bill Bradley, aveva visto consolidare sempre di più la leadership dei suoi club in Europa diventando il secondo campionato al mondo, dopo la Nba, per livello tecnico grazie all'arrivo di autentici fuoriclasse dagli Stati Uniti, ma, al di là di due bronzi europei nel '71 e nel '75, non era ancora riuscita a "monetizzare" la sua indubbia superiorità organizzativa, dirigenziale, propositiva, a livello di Nazionale pur sfiorando più volte ai Giochi e ai Mondiali il podio. 

La situazione era cambiata con Sandro Gamba alla guida della squadra azzurra al posto di Giancarlo Primo dopo il bronzo sfumato per un canestro all'ultimo secondo e da metà campo di Marcel, quando già gli azzurri festeggiavano, a Manila nel campionato del mondo delle Filippine. A Mosca, approfittando dell'assenza, anche qui per boicottaggio, degli Usa, gli azzurri erano riusciti nell'impresa di battere l'Urss (prima sconfitta dei sovietici in una manifestazione ufficiale sul proprio campo) nella "sua" Olimpiade spalancandosi la strada verso la finale con la Jugoslavia.

La maturità di quel gruppo emerse di fatto tre anni più tardi, appunto a Nantes, con la Nazionale ormai pronta alla grande impresa. Era una squadra formidabile, con padri nobili, Meneghin e Marzorati, e con giocatori ormai maturi e che pure avrebbero continuato per anni a interpretare nel modo migliore il basket di Gamba. Erano ragazzi di spessore, sono diventati uomini di grande peso: Villalta e Costa presiedono le società di Bologna e di Pesaro, Bonamico è stato per anni il presidente della LegaDue, Meneghin della Federazione, Marzorati lo è del Comitato Regionale del Coni, Caglieris, Riva, Brunamonti e Vecchiato hanno ricoperto o ricoprono importanti ruoli societari, Sacchetti è il coach che ha fatto esplodere con la sua Dinamo Sassari l'entusiasmo per il basket in tutta la Sardegna, Gilardi, da anni consigliere Fip nel Lazio, si occupa dei giovani dopo aver innovato con successo le metodologie di reclutamento e di addestramento. Tonut, che in quegli Europei aveva preso all'ultimo momento il posto di Solfrini infortunato, ha avuto la soddisfazione di vedere quest'estate il figlio laurearsi anch'esso campione d'Europa anche se a livello di Under 20.

Li rivedremo tutti al Foro Italico coronando un'operazione che è anzitutto culturale: se l'Europeo in Slovenia ha mostrato che la nostra Nazionale sta facendo progressi, l'idea che in questi ultimi (troppi) anni si è formata è di un basket italiano perdente, relegato agli ultimi posti in Europa, soffocato dalla straripante presenza dei giocatori stranieri. 

Ebbene mostrare gli italianissimi campioni dell'83, ricordare le loro vittorie, le loro medaglie, cosa e come era il nostro basket, cosa e come è stato almeno fino a dieci anni fa, significa cominciare a colmare una gravissima lacuna culturale di cui siamo tutti responsabili. Far capire chi siamo insegnando da dove veniamo, significa infatti stimolare nei più giovani l'orgoglio di appartenenza e il giusto spirito di emulazione, oltre a rendere infine la dovuta giustizia a quanti al basket e per il suo prestigio nel mondo hanno dato così tanto.

Mario Arceri